La voce

C’era tanto silenzio in quella casa, nessuna parola riusciva a riempire quell’aria rafferma che avvolgeva la mobilia immobile e impolverata di quell’appartamento. La mamma dormiva sempre, diceva che era stanca e non poteva perdere tempo a giocare con un moccioso. Così imparai a non disturbarla, a muovermi piano in quegli spazi piccoli e ingombri di nulla nei quali era compresso tutto il mio mondo. Usavo della carta e dei pennarelli per disegnare i prati, per far finta di sentire il sole sulla pelle, quello che incontravo nel percorso verso scuola, nelle giornate di primavera. Disegnavo anche i miei compagni di giochi, quelli che avevo immaginato di avere. Erano un maschio ed una femmina, due compagni fedeli con cui scambiare le figurine degli animali che non potevo permettermi di chiedere vista la nostra ‘condizione disagiata’, come la chiamava la mamma. A volte sembrava colta, usava dei termini difficili, sembrava avesse studiato, o forse ripeteva solo ciò che le veniva detto dagli assistenti sociali che ci seguivano. A loro diceva che a volte mi portava in giardino, ma non era vero. Era riuscita ad istruire delle sue amiche che dichiaravano di avermi visto giocare alle altalene. Io non dicevo nulla, mi limitavo ad annuire a tutto ciò che inventavano. In fondo la mamma era la mia famiglia! E mi faceva anche da mangiare di tanto in tanto. Non era una brava cuoca, lo sapevo, ma se il sugo era un po’ bruciato, magari aveva più sapore. Imparai ad apprezzarlo con il tempo.

Comunque avevo scoperto che con la carta ed i colori il mio mondo non aveva più limiti. Potevo inventarlo, distruggerlo e ricostruirlo. Potevo renderlo un arcobaleno, oppure annegarlo nel grigiore più intenso. Persino renderlo allegro e pieno di gente. Avevo un’arma in mano che mia madre non conosceva, che non era riuscita a disgregare nei tanti anni di reclusione. Era la mia fantasia, la mia voglia di riscatto, la mia voglia di vivere e di inventare. Nessuno poteva togliermi ciò che avevo nella testa, in qualunque luogo fossi andato avrei portato con me il mondo piuttosto che essere io ad andargli incontro!

E il mio papà, lui si che invece giocava con me. E lo faceva tutte le notti. Si, quando mi addormentavo lui veniva nei miei sogni e mi portava nel giardino a giocare a pallone e la mattina il mio sorriso era tutto per lui, che mi aveva regalato ancora una volta il suo amore.  

Quel silenzio era reale, ma lo era ancor di più la mia voce interiore, quella che mi sussurrava durante la giornata talvolta canzoni, altre volte delle storie, altre volte ancora mi diceva di avere pazienza, che passati alcuni anni, tutto sarebbe cambiato e sarei diventato grande e autonomo, avrei lavorato e avrei acquistato una casa vera, come quella che disegnavo quando volevo invitare i miei due amici a prendere un tè. Quella voce era la mia guida, ed io credevo alle sue parole più di quanto avessi mai creduto alle parole di mia madre. Almeno lei non era stanca e c’era sempre, quando la chiamavo.

Arrivarono i miei 18 anni. Mi sentivo grande e vicino alla realizzazione dei miei sogni. Avevo solo bisogno di andare a lavorare, come mi ripeteva la mamma. Forse quella volta voleva davvero il mio bene, anche se poi aggiungeva sempre che le servivano soldi per pagare da mangiare. Ma ero convinto di poter mantenere me e lei e di vederla, finalmente, meno stanca. In fondo mi ero riposato abbastanza, ora avevo una grandissima voglia di fare, di muovermi, di sopperire a quella immobilità con il duro lavoro! Avevo voglia di sentirmi utile. Iniziai con l’imparare il mestiere del muratore. Un amico di mamma che spesso veniva a trovarla e si chiudeva in stanza con lei mi disse, un giorno, che mi avrebbe insegnato a lavorare e mi avrebbe pagato regolarmente. Mi piaceva buttar giù i muri. Sentivo i muscoli rinforzarsi, finalmente mi muovevo e costruivo qualcosa di reale. Una sensazione inebriante che mi rendeva instancabile. Solo che quella voce, quella voce che per anni aveva accompagnato  le mie lunghe, interminabili giornate, non voleva essere messa a tacere. Tornava sempre più insistentemente nella mia testa, quasi martellandomi i pensieri. Tanto che a volte fui costretto ad urlarle di stare zitta! Mi capitò anche nel cantiere in cui lavoravo, alla presenza degli altri muratori che si spaventarono e chiamarono subito il capo dicendogli che ero pazzo. Io provai a spiegargli che non era pazzia la mia, che quella voce parlava davvero, che dovevo solo insegnargli a stare in silenzio, era questione di tempo! Che ero bravo nel mio lavoro, mi impegnavo, non poteva negarlo nessuno. Ma quell’uomo mi cacciò via con la forza e mi riportò da mia madre urlando che non gli aveva detto che ero fuori di testa. E lei anche mi urlò che ero un buono a nulla e ora anche pazzo! Che se non lavoravo mi avrebbe fatto rinchiudere da qualche parte.

E così accadde. La voce non stava mai zitta, ed io ricominciai a parlare con lei nell’ospedale in cui ero finito. Di nuovo il mio mondo era stato intrappolato, ma per fortuna avevo ancora la mia arma, i miei compagni ora grandi come me che mi venivano a trovare nei disegni e avevo qualcuno che mi cantava le canzoni, mi raccontava le storie e mi diceva che sarei uscito di lì appena guarito e avrei potuto lavorare e comprare la mia casa e sentire il mio sole riscaldarmi la pelle. E soprattutto c’era ancora il mio papà che di notte, nei sogni, mi prendeva e mi portava in giardino a giocare a pallone. E in quei sogni quella voce finalmente taceva, e in quel girotondo di giochi solo gli occhi di mio padre riempivano quell’universo di silenzioso amore.

Emanuela Arlotta

 

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