La chioccia

LA CHIOCCIA (tratto dalla raccolta I luoghi della memoria)

Il palazzotto dove Mariantonia abitava con la sua famiglia era stato un tempo di un’antica famiglia, non tanto nobile quanto invece ricca, anzi molto ricca, la quale aveva ceduto per quattro soldi la vecchia casa lasciandovi dentro tutto, e si era trasferita altrove.

I segni dell’antica opulenza rimanevano chiari sui muri e sui soffitti tutti arabescati e dipinti a rose turgide anch’esse di colore e di splendore un po’ disfatto; nei pesanti lampadari in ferro battuto e in altri di trasparente e leggera opalina; nei divani di raso consunti, sempre a fiori, che occupavano gli angoli delle stanze. Finanche le stoviglie, i piatti, le sperlonghe col profilo d’oro zecchino nel cui centro risaltava pur graffiata dall’uso la “C” di Cacace, allora nota fabbrica di porcellane, quasi occhieggiavano in maniera civettuola al ticchettio delle posate con cui mani vogliose rimestavano cibi frugali di verdure cotte e crude, o quelli più succulenti di legumi, fagioli soprattutto.

Mariantonia era la padrona in questa casa, la “padrina” sembrava, un po’ logorati gli abiti neri che le avviluppavano il corpo e in petto la fierezza di una donna che per tanti anni aveva affondato le unghie nella terra per cavarne cavoli o patate, che aveva irrobustito i fianchi e le spalle sotto il peso di sarcine di legna raccolta nel bosco per alimentare nel focolare la fiamma della casa. La crocchia di capelli ormai ingrigiti sulla nuca; sopra, un velo scuro incorniciava il volto rude, aspro in cui gli occhi neri vagavano impazienti, come sempre in attesa di qualcosa. Non c’era umiltà nello sguardo, ma dispetto terribile, una certa rabbiosa sfida contro il destino che l’aveva voluta lì, sottomessa a una condizione di vita diversa da quella sognata, la vita che lei presagiva quando il suo cuore pulsava di represse fantasie d’amore sotto lo sguardo pudico del suo innamorato. Ma il destino aveva disposto altrimenti. Il suo giovane amato era rimasto eroe chissà dove, disperso ai venti funesti della guerra e non era mai più tornato. La vita allora dapprima dischiusa a ventaglio si era ripiegata su se stessa racchiusa tra le pieghe dell’anima in quella parte insondabile dove non è concesso di penetrare neppure allo sguardo più benevolo e discreto. Aveva lasciato così tutto al caso, rinnegando ogni fiduciosa speranza, ogni convinto progetto di vita. Contro le intemperie del mondo e della vita aveva opposto una corazza, la corazza del suo volto impassibile, del suo animo pietrificato. “Ha le croste al cuore” dissero di lei quando la videro sposare, senza nemmeno una lacrima Tonio, una pasta d’uomo, gran lavoratore. Ma Mariantonia non era così forse. Aveva una certa disponibilità per gli altrui casi e si prodigava anche in consigli, ma erano questi ultimi sempre freddi, enigmatici, oracolari. Nella povertà non si è mai troppo poveri da non poter offrire a chi è più povero, ma ella offriva sempre con mano segreta e frettolosa,quasi provasse pudore a mostrarsi tenera. Se poi aveva urgente bisogno di danaro non esitava a vendere le uova racimolate nel magro pollaio, lasciando ai figli una cena un po’ più magra. Per un po’ avrebbero potuto anche soffrire il digiuno, come pure avrebbero potuto raggrinzire la pelle al sole o inaridirla ai gelidi soffi di tramontana. Il futuro sarebbe stato diverso convinta che chi fosse stato prescelto una volta dalla mala sorte, ne sarebbe rimasto libero in seguito. Per il momento l’unico scopo era di far fruttare il lavoro del suo Tonio che viveva le ore antelucane lungo le mulattiere in groppa al frenetico mulo sbuffante, stracarico di carboni da vendere casa per casa, appena fatto giorno. “Bisogna fare il nodo al fagiolo” soleva ripetere Mariantonia ai suoi figli, ribadendo la necessità, nelle ristrettezze, del sacrificio e del risparmio forzato. E lei di nodi al fagiolo ne aveva fatti tanti da quando aveva lasciato la sua famiglia d’origine in cui oltre al benessere sembrava aver lasciato la sua stessa gioventù. Ma era orgogliosa e non si piegava. Mai una lacrima dagli occhi vitrei…sospiri tanti, mai un singhiozzo allo spasimo delle membra illanguidite dallo sfinimento o nervosamente contratte dalla fatica. Nel cuore gelido però  c’era amore per i figli. I figli che vedeva crescere e imboccare nella mappa della vita le strade del successo e del benessere con le scelte che lei voleva, stabiliva con cura ossessionante. Non come lei che per fatale avversione la vita se l’era dovuta guadagnare giorno per giorno con il sudore della fronte. Tali strade erano sì lastricate di rinunce, sacrifici, solitudine, ma anche di studio tanto studio sui libri logori e pezzenti delle bancarelle ; ma alla fine splendida come un trofeo, gloriosa come una vittoria…la laurea!. Aveva avuto buon fiuto Mariantonia e il tempo le diede ragione. La laurea venne e con la laurea il lavoro e con il lavoro tanta grazia di Dio, tanta roba da riempirne stanze. Ah, finalmente viveva, finalmente aveva i balconi pieni di frutta, capretti, agnelli a Natale e Pasqua, damigiane colme di vino bianco e rosso, canestri di taralli e biscotti, salumi e formaggi in quantità. E uova, tante uova che continuava a vendere. Aveva perciò messo a riposo il marito, concedendogli di trattenere il mulo a cui quegli andava a piangere la sua solitudine come ad un amico fraterno, come faceva quando andava cavalcando di notte. Padrona lei era stata e padrona era tuttora. Disponeva, progettava, consigliava a suo piacimento. Conseguita la laurea, era ormai tempo che i figli scegliessero le spose. Né lucida indovina, né esperta fattucchiera si sarebbe sentita più sicura di lei nel prevedere e provare le possibilità a tal riguardo. Era convinta che le elette dovessero essere come figlie sue e serve dei suoi figli. Che avessero un nome e un’anima non contava. Le cercava pertanto docili mansuete malleabili e con una buona dote. Le trovò. E furono malleabili, mansuete, docili. Come rivi allo stesso fiume andavano a lei, fonte e porto a un tempo. Ma ella tutti schiacciava con la terribilità del suo aspetto, tutti annullava con la gravità delle parole, tutti infine si adoperava inconsapevolmente a soffocare. Alla mano che si allungava a stringere e stritolare i figli, come un tempo le zolle di terra, essi pian piano andarono sottraendosi cercando nuovi mondi, orizzonti liberi dove l’affetto non procurasse ceppi ma ali, dove il cambiamento di vita non fosse morire ma risorgere con la nuova linfa della consapevole autonomia che non si piegasse a ricatti affettivi e abolisse tutti i sensi di colpa che l’affetto materno aveva creato nelle loro coscienze.

La lasciarono così sola in quel vecchio castello a stridere ancora una volta i denti contro un destino beffardo che si era presa gioco di lei, ormai per l’ultima volta, gettandola in pasto a una disperata solitudine.

Di lì a poco Mariantonia morì. I figli non parteciparono al suo funerale. Inviarono ricchi fasci di rose.

Adriana Pedicini

 

 

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