Il ronzio del filosofo

La prima volta che lo vedemmo entrare in classe fu una decina di giorni dopo l’inizio delle lezioni, si presentò un po’ insicuro e disponibile verso di noi, troppo disponibile forse. Subito ne approfittammo senza concedergli neanche un minuto di vero silenzio. Era come se avesse avuto stampato sulla fronte “sono buono come il pane, con me potete fare casino”. Lui era un grande.

Entrò timidamente in classe, indossava un completo grigiastro a righe un po’ datato e una camicia azzurra leggermente scolorita. Non appena si accomodò in cattedra si sfilò la giacca e la sistemò alla meglio sulla sedia, poggiò inoltre sul tavolo la tessera dell’autobus “Intera Rete” e una borsa di pelle marrone un po’ sgualcita. Aspettò pazientemente che noi smettessimo di chiacchierare e ridacchiare. Gli concedemmo una parvenza di silenzio, quanto bastava per fargli prendere la parola ma già ci eravamo resi conto che probabilmente valevano molto di più la sua preparazione e la sua comicità piuttosto che la sua autorevolezza intrinseca che poteva essere paragonata ad una temperatura di poco superiore a -273,15°C ovvero a 0° della Scala Kelvin, la Scala termometrica che non ammette valori negativi. Ma lui era ugualmente un grande.

Aveva pressappoco una cinquantina d’anni, era di costituzione piuttosto minuta ma la sua testa ci sembrava grande rispetto al corpo per effetto forse di una capigliatura grigia piuttosto voluminosa e delle lunghe basette che gli allargavano il viso, ma il particolare più importante della sua faccia erano gli occhiali con la tipica montatura plastificata che si usava negli anni settanta e due grosse lenti rettangolari dalle quali traspariva il suo sguardo riflessivo e mansueto. Gli occhiali era la prima cosa che noi disegnavamo nelle nostre caricature. Due aloni di sudore gli macchiavano la camicia in corrispondenza delle ascelle, ai primi di ottobre faceva ancora piuttosto caldo. Lui iniziò a parlare e probabilmente disse qualcosa come – buongiorno a tutti sono il vostro professore di filosofia e storia – la sua voce era un po’ strana, poteva ricordare il ronzio di un insetto e la sua cadenza era sicuramente meridionale, ci disse infatti a metà anno che era originario della provincia di Siracusa. Il nostro professore di filosofia era un grande.

Non appena iniziò a parlare a molti di noi venne da ridere ma riuscimmo con discreta abilità a nasconderlo. Per noi che avevamo appena finito il ginnasio, la filosofia era una novità, una delle nuove materie del triennio, una materia importante e ci sembrava un po’ strano assimilare il pensiero filosofico dei Presocratici, di Socrate o di Platone ascoltando quel curioso ronzio talora lamentoso di vespa o di calabrone che lui emetteva durante le sue singolari lezioni. Di quel lontano autunno del 1976 ho nitidissimo il ricordo di quando ci spiegava Anassimandro o Anassimene agitando nervosamente l’indice e il medio di entrambe le mani mentre emetteva sempre quel brusio lamentoso di vespa. Chi aveva più fantasia lo aveva già paragonato a un misterioso insetto gigantesco che tentava invano di spiccare il volo. Non si capiva molto delle sue spiegazioni anzi non si capiva niente però ci dava ugualmente l’impressione di conoscere bene la materia, le sue lezioni occupavano tutta l’ora e il chiacchierio di sottofondo lo disturbava solo al di sopra di una certa soglia mostruosamente più alta rispetto ai massimi livelli di tolleranza di qualsiasi altro nostro insegnante. Potevamo fare tutto quello che volevamo durante le sue ore, chiacchierare, copiare i compiti di latino, ripassare greco o fare fumetti, lui al massimo, quando le chiacchiere erano veramente eccessive, diceva con un indice di incisività irrisorio – non mi sembra di vedere concentrazione. Guardate che io poi mi arrabbio – ma in realtà lui si arrabbiò veramente una sola volta, quando sferrò un calcio al cestino e purtroppo quell’unica volta io ero assente. Lui era veramente un grande.

Durante l’intervallo lo vedevamo passeggiare lentamente avanti e indietro per i corridoi reggendo con un braccio la borsa di pelle piuttosto sgualcita e coprendosi la bocca con la mano dell’altro braccio mentre teneva alzata la testa e rifletteva nessuna sa su che cosa. A volte entravi in un’aula delle sue classi e ti sembrava di entrare in un alveare, molti studenti lo imitavano e si poteva ammirare l’agitarsi di decine di dita, a volte gli venivano attribuite frasi che non aveva mai detto e quando lo si nominava bastava dire semplicemente bzzzzzzzz – abbiamo avuto due ore di bzzzzzzzz, che palle – meno male che adesso abbiamo un’ora di bzzzzzz così possiamo copiare la versione di greco e studiarcela – lui era veramente un grande.

Le interrogazioni erano ovviamente programmate e consistevano, per gli studenti meno volenterosi, in un’arida lettura del riassunto scritto del sommario di un capitolo a scelta, si andava in cattedra con la sedia, ci si accomodava e si leggevano le poche righe di quel riassuntino scritto in fretta e furia e all’ultimo momento, magari durante l’ora precedente, lui ascoltava di solito con il gomito poggiato sulla cattedra, la mano davanti la bocca e lo sguardo perso nel vuoto e non guardava mai negli occhi lo studente interrogato, a volte la voce dello studente che esponeva il miserrimo sunto del sommario del capitolo più corto veniva interrotta da una risata causata forse da eccessivo senso dell’umorismo o dalla cattiveria di qualcuno che dal suo posto agitava le dita per provocare la risata. Era un grande il nostro professore di storia e filosofia.

Un ragazzo di un’altra sezione nostro amico si intrufolò un giorno nella nostra classe dopo la ricreazione con la speranza di contemplare il ronzio filosofico del nostro professore che si accorse subito della presenza dell’infiltrato ma esitò alquanto a mandare via il ragazzo, si rivolse infatti con aria interrogativa verso il più studioso della classe che si limitò a far capire che era lui l’insegnante e quindi era lui che doveva mandarlo via. Passò ancora qualche decina di secondi poi lui trovò il coraggio e disse – tu mi sembra che non appartieni a questa classe -il nostro amico si alzò e si scusò trattenendo a stento le risate – ha  ragione professore! Io sono della prima c, mi scusi, adesso vado!

Una volta a metà anno si arrabbiò perché tutti noi chiacchieravamo. Dopo aver tentato invano di richiamare l’attenzione -oooooh, oooooh …. ooooh!!!! – sbattè  forte le mani all’ultimo ooooh!!!! – gli scoppiai a ridere in faccia, lui se ne accorse e mi gridò – tu perché ridi? – Mi scusi ma mi è scappato, non ce l’ho fatta! – fu la mia pronta risposta. Lui era un grande.

Lo avevamo soprannominato “Platone il Calabrone”. Una volta, s’era verso la fine dell’anno, appena terminato l’intervallo eravamo ancora in pochi nell’aula, una vespa vera si posò sul suo collo e iniziò ad arrampicarsi sulla parte destra del suo viso, lui non si accorse di niente ed io ed un mio compagno rischiammo quasi un infarto per una crisi isterica di risate. Il mio compagno, il più alto della classe non appena vide la vespa poggiata sul collo del povero professore trasalì, indicò l’ignaro professore, scoppiò a ridere e si buttò per terra per non essere visto, iniziò a divincolarsi, la sua risata sembrava essersi trasformata in un attacco epilettico. La mia vista nel frattempo si era appannata per l’abbondantissima lacrimazione e avvertii un discreto dolore alla pancia per la contrazione dei muscoli dovuta alla risata. Alla fine un altro ragazzo un po’ più serio disse – professore – all’epoca non si usava dire “prof” – ha una vespa sul collo! –

Era un grande il nostro professore di filosofia. Grazie professor XXXXXX, ci hai fatto morire dalle risate!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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