Elena e le bambole.

ELENA E LE BAMBOLE

 


C’era una volta una bambina di nome Elena.

Era una bella bambina di 7 anni, bruna, con vivaci occhi scuri e tanta fantasia.

Figlia unica di una famiglia assolutamente normale, papà impiegato, mamma insegnante, conduceva la sua spensierata infanzia fra l’interno di un altrettanto normale appartamento imprigionato in un grosso condominio alla periferia di Roma, e la scuola, non molto distante da dove abitava.

Elena amava molte cose della sua vita, in particolar modo: la sua famiglia, le feste di Natale e le bambole.

Per le bambole aveva una vera passione e, contrariamente alle sue coetanee, che per Natale chiedevano già il computer  e il cellulare, lei voleva una bambola. Magari l’ultimo modello, ma solo bambole.

Ormai ne aveva molte, e le aveva sistemate in buon ordine negli scaffali della piccola libreria nella sua cameretta.

Ogni giorno, dopo aver pranzato, andava nella sua stanza e, prima di iniziare a fare i compiti, le salutava tutte per nome, dopodiché cominciava a giocarci, ma soprattutto ciò che le piaceva moltissimo fare era‘chiacchierare’ con loro, raccontando cosa aveva fatto a scuola, e intavolando vere e proprie piccole discussioni su cosa le avesse fatto piacere e cosa l’aveva infastidita durante la mattinata scolastica.

E le bambole rispondevano a seconda dell’aspetto e dell’età.

La più vecchia, Lisa,  il primo regalo, già un po’ sdrucita, i capelli lunghi, una volta rosso fuoco, ora rosa opaco, l’abitino stropicciato e macchiato di tutto, il visetto di panno, bianco e rosa chiaro, segnato da qualche ruga d’espressione vergata con la penna, era anche la più saggia, e spesso le muoveva qualche piccolo rimprovero per essere stata troppo impulsiva, troppo sgarbata, troppo superficiale con i compagni di scuola o con i genitori; la più giovane, Katia, regalatale il Natale precedente, biondissima, riccioluta, occhioni azzurri, minigonna rossa in finta pelle, maglioncino aderente blu e stivaloni, era senza dubbio la preferita di Elena, perché le diceva sempre quello che lei voleva sentire, cioè, quello che lei materialmente faceva, senza porsi troppe domande e troppi scrupoli sul perché lo facesse o lo avesse fatto.

 

 

 

Passarono gli anni.

 

 

Al compimento del 12esimo, finite le feste natalizie, al ritorno da scuola, entrata nella sua camera, Elena scoprì con sua somma disperazione che le bambole erano sparite.

In lacrime, chiamò la mamma.

“Mamma, le mie bambole! Dove sono?”

“Le ho messe via, Elena. – rispose la mamma, con grande naturalezza, come se fosse la cosa più normale del mondo – Hai 12 anni! Basta giocare con le bambole!”.

“Dove le hai messe?” gridò quasi Elena continuando a piangere.

“Sono giù in cantina – rispose la mamma, in tono seccato – ma quand’è che ti decidi a crescere?”.

Elena volò giù in cantina, rischiando di cadere dalle scale per le lacrime che le offuscavano la vista.

Una volta entrata, lo scoramento aumentò notando la quantità impressionante di scatole e scatoloni di cartone impilati l’una sull’altro, su buona parte del pavimento.

Per fortuna però, su ogni scatola era riportato a pennarello il contenuto, quindi le fu facile ritrovare quella dove erano state riposte le sue bambole. La aprì. In cima a tutte c’era Lisa. Elena la prese e la abbracciò, senza smettere di piangere.

“Non preoccuparti, Elena. – le disse dolcemente Lisa – Ci rivedremo”.

 

 

 

 

Passarono tanti altri anni.

 

Elena si sposò ed ebbe due figli: un maschio e una femmina.

Quando Vanessa compì 3 anni, e venne Natale, Elena si recò a casa della madre e scese nella cantina a recuperare la scatola con le sue bambole.  Voleva metterle in buon ordine nella cameretta che aveva comprato per la sua bambina, e così fece, gustando in anticipo la faccina sorpresa di Vanessa nel vedere quei giocattoli che avevano allietato l’infanzia di sua madre.

E mentre aspettava il ritorno di sua figlia dall’asilo, passò in rassegna le bambole, una ad una: Lisa, Jessica, Samanta, Katia….

E non riuscì a credere a ciò che vide. Al suo passaggio, ognuna di esse le strizzò  l’occhio.

E tutte insieme la salutarono:

“Ciao, Elena”.

 

 

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