Una risata ti seppellirà

Una risata ti seppellirà

 

Caffè. Nero e bollente. Ne ho bisogno, veramente bisogno. Sfoglio il giornale, così tanto per fare ma il mio pensiero è altrove. Dovrei dirglielo ma non ne ho il coraggio. Accidenti ma come fanno le persone a non crearsi problemi nel dire all’altro “ora basta, scusa ma è finita. Non è colpa di nessuno ma io non ti amo più”. Forse perché gli altri non sono io e viceversa. O forse perché lui non lo merita proprio. Il fatto che io lo lasci intendo. Ma devo farlo, ordinare un altro caffè dico, anche se il mio stomaco e il mio fegato non vorrebbero proprio io ne ordino un altro. Nero e bollente. Ne ho bisogno, veramente bisogno.

Cazzo ha da guardarmi quello. Anzi non mi sta guardando ma fissando. Sorseggio il caffè e tiro fuori una sigaretta dal pacchetto quasi vuoto. L’accendino. Dove si sarà andato a nascondere l’accendino? Rovisto nella borsa come un gatto affamato nel cesto dei rifiuti. Tra l’altro la mia borsa è così. Un cesto pieno di rifiuti. Colmo di cose di cui non riesco a liberarmi. Ma io non riesco a liberarmi di nulla, neanche di un amore finito. Ma l’accendino non c’è ed io non posso accendere la sigaretta, quindi non posso fumare. E questo m’innervosisce. Molto. Quello si avvicina e con un sorriso smagliante in volto ed un accendino nuovissimo in mano mi chiede – Vuoi accendere per caso? – per caso. Certo idiota che voglio accendere, è mezz’ora che ho questa sigaretta tra le mani e se ne sono accorti pure i sassi, anzi i sampietrini visto che siamo in città, che voglio accendere. Ma con molta educazione rispondo – sì, grazie –

La prima boccata mi da una meravigliosa sensazione di appagamento. Non si può prendere il caffè e non fumare una sigaretta. E’ contro natura. Almeno contro la mia. Quello è lì che continua a guardarmi. Continua a sorridere. Gli faccio un cenno prima di andarmene, un grazie-ciao educato e lontano. Lui mi dice qualcosa ma io non capisco. Chiedo – Cosa? – e lui parlando più forte – ho detto che ci vediamo presto, prestissimo – Ah sicuramente, ciao e grazie di nuovo – rispondo io.

Stai fresco bello mio, in questa zona ci son capitata per caso ed è solo per caso che ci siamo incontrati. E per esperienza so che i casi non si ripetono, almeno se non li si vuol far ripetere. Ed io non ho proprio nessuna voglia di rivederti.

Ora devo pensare a come dire al mio uomo che non lo amo più. Devo avere il coraggio di dirgli che non voglio più che sia il mio uomo. Devo farlo. In maniera indolore ma devo farlo. Ci penserò lungo la strada.

 

Buio assoluto. Non riesco a capire dove sono, se ancora sono. Ho male dappertutto e freddo, tanto freddo. La mano sinistra si aggira anarchica ed incosciente a tastare quel che potrebbe esserci intorno al corpo. Il mio. Credo di essere adagiata su cemento. La mia mano sinistra non sente terra, né erba, insomma nessuna cosa che faccia pensare di essere fuori, di essere all’aperto. Sono in un luogo chiuso. Chiuso e buio. La mano destra prova ad imitare la sorella anarcoide ma una fitta di dolore la fa desistere.  – Ehi stupidina mica ti sarai rotta? – le chiedo io, con il pensiero però che la voce non esce proprio. Faccio leva sulla mano sana per cercare di mettermi in piedi, ma l’unica cosa che riesco ad ottenere è un sisma di strazio per tutto il corpo. Ondulatorio e sussultorio. A questo punto svengo. Grazie a Dio.

 

– Vuoi un po’ d’acqua? – Sento una voce, lontana, o forse sto sognando di sentirla. Ma quella voce ripete la domanda – ho chiesto se vuoi un po’ d’acqua. – Ora è più vicina, l’avverto distintamente quindi non sto sognando. M’impongo di aprire gli occhi. Conto fino a tre e poi ci provo, mi dico, con il pensiero però che la voce non esce proprio. A due apro gli occhi, con fatica ma li apro. C’è una luce fievole, forse una candela e una sagoma umana che mi sta guardando, anzi fissando. Si avvicina, un sorriso smagliante nel volto e un bicchiere d’acqua nella mano. -Bevi- sussurra -piano che ti fa male, così brava – Bevo lentamente, gocce di acqua scivolano dai lati della bocca ma nessuno ci fa caso, né io né quello. Formulo un pensiero e cerco di farlo uscire dalla gola. Ne esce fuori un suono distorto che vorrebbe dire -cosa mi è successo? – Quello avvicina ancora di più il suo volto al mio e risponde – hai avuto un incidente – . Cazzo dice, penso io, non ricordo assolutamente di aver avuto un incidente. Stavo camminando a piedi pensando a come dire al mio uomo di non essere più il mio uomo e non ricordo di essere stata travolta da niente, intendo da un’automobile o un autobus o… a allora perché sono qua dolorante e quasi incosciente. Qualcosa deve essermi accaduto. Cerco di mettere a fuoco il viso di quello, quello che mi sta parlando. Ad un tratto ricordo. Quello è quello del bar, dell’accendino insomma.

– Chi sei – domando.

– il tuo incidente – risponde lui.

– Che vuoi dire? –

– Che incidentalmente hai avuto l’occasione d’incontrarmi. Quando ti ho detto che ci saremmo rivisti presto, ho letto nei tuoi occhi lo scherno per una simile affermazione. Come se tu dicessi “Stai fresco bello mio, in questa zona ci son capitata per caso ed è solo per caso che ci siamo incontrati. E per esperienza so che i casi non si ripetono, almeno se non li si vuol far ripetere. Ed io non ho proprio nessuna voglia di rivederti.” Tu non avevi nessuna voglia di rivedermi ma…io sì. Non chiedermi come ho fatto a portarti qui ed il motivo per cui non ricordi niente, ho le mie tecniche ed è completamente inutile che tu lo sappia. Ora riposa. Ci vediamo più tardi – .

Ora sono di nuovo sola. Sola e dolorante. Cosa avrà fatto per ridurmi così? Non trovo risposte. Non ricordo niente. Avrei voglia di un caffè. Nero e bollente. Ne ho bisogno, veramente bisogno.

 

Devo aver dormito parecchio, ho la bocca impastata ed ho sete. Tanta sete. Provo ad alzarmi ancora una volta, non riesco e ricado giù. Sento aprire una porta. La luce che entra quasi mi acceca. La luce di una torcia che cammina verso di me. Poi devia alla mia destra e si ferma. Lui-quello mi si avvicina e gentilissimo mi chiede se voglio che mi aiuti a mettermi seduta. Faccio sì con il capo e lui mi aiuta. La schiena ha un brivido di dolore ma dura solo un attimo, solo un attimo. Ora poggia contro un muro credo, così mi sento meno vulnerabile. Quello mi da anche un po’ d’acqua e stavolta svuoto il bicchiere in pochi secondi, tossisco e questo mi provoca fitte in tutto il corpo.

– Piano devi bere piano – dice lui.

– Cosa vuoi da me? –

– Tranquilla, fra pochissimo lo saprai –

– Hai intenzione di uccidermi? –

– No, ma che dici. Almeno non tutta insieme –

– Che intendi dire? Ti prego non farmi del male –

– Shhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh. Zitta ora che devo concentrarmi –

E la vedo. Come ho fatto a non accorgermene prima. L’aveva in mano e non me ne sono accorta. La vedo alzarsi e abbattersi su di me. Sulla mia mano stupidina, quella inutilizzabile quella che… ora non c’è più.

– Tanto era già rotta – dice quello prima di uscire.

Un’ascia, aveva un’ascia e non me ne sono accorta penso prima di svenire.

 

Mi sveglia il profumo, il profumo del cibo. Lo stomaco comincia a gorgogliare. Ho fame, tanta fame. Apro gli occhi, lui è qua, nella stanza con me. Ha una ciotola tra le mani, niente ascia solo una ciotola piena di cibo.

– Mangia, è brodo di pollo, leggero e nutriente. Su non farti pregare, mangia –

A questo punto ricordo di avere una sola mano che l’altra me l’ha tagliata lui poche ore (ore o giorni?) prima, e inizio a piangere, dolcemente all’inizio poi sempre più violentemente fino a singhiozzare. Sono sconquassata dai singhiozzi, dalle lacrime e dal muco che senza pudore scende giù dal naso.

– Basta! Basta. Che hai, sembri una bambina a cui hanno portato via il giochino nuovo. Smettila di piangere e mangia. Cazzo hai un’altra mano no? E allora usala per mangiare altrimenti ti lascio a digiuno –

La sua voce è alterata ed io ho terrore, tanto terrore. E allora inizio a mangiare. Con la mia mano sinistra che ancora una volta si dimostra anarchica ed incosciente, sbrodolandomi metà della ciotola addosso. E finisco di mangiare. Tutto.

– Visto che ce la puoi fare? Brava, sono orgoglioso di te. I tuo…moncherino, si chiamiamolo moncherino, non ti procurerà nessun fastidio. Ho disinfettato per bene e tamponato l’emorragia mentre tu dormivi. Non ti ho dovuta neanche sedare. Ora vado, ci vediamo più tardi. Ti porterò un caffè nero e bollente, come piace a te. –

Sì un caffè nero e bollente. Ne ho bisogno, veramente bisogno.

 

Il cigolio della porta mi sveglia. Ho perso la cognizione del tempo. Lui ha in mano una candela, si avvicina ed io istintivamente mi rannicchio contro il muro. Sto tremando e non è il freddo, o almeno non solo il freddo.

– Guarda un po’ qua… te l’avevo promesso e te l’ho portato. Nero e bollente come piace a te, su bevilo prima che si freddi –

Prendo con la mano sinistra la tazzina e bevo. Per un attimo, solo per un attimo mi sento felice. Il caffè mi riscalda la gola e lo stomaco. Ne avevo bisogno, veramente bisogno. Poi la vedo, vedo quel che quello cerca di nascondere dietro la sua schiena. Mi sorride, e sorridendomi sussurra – io ho dato una cosa a te ora tu dai una cosa a me – La sega elettrica tra le sue mani mi fa perdere conoscenza prima che io possa vederlo al lavoro o sentire il rumore oltraggioso dell’arnese. Spero di morire in fretta.

 

Non so da quanto tempo sono qui. Non so nemmeno quel che è rimasto del mio corpo. Non voglio saperlo. Penso a quella mattina. Al caffè nero e bollente. All’ultima sigaretta fumata. Cosa darei ora per una sigaretta, magari se lo dico a quello me ne porta una. Tanto facciamo una sorta di scambio, lui da una cosa a me ed io do una cosa a lui. Non sono sicura di avere ancora qualcosa da dargli.

Penso al mio uomo. Volevo lasciarlo in modo indolore, beh ci sono riuscita. Indolore per lui meno indolore per me. Inizio a ridere. Piano piano poi sempre più forte, rido come non ricordo di aver mai riso e a questo punto la porta si apre e vedo entrare quello che si avvicina a grandi passi. E’ vicinissimo al mio volto. Mi guarda con odio, disprezzo. Mi guarda negli occhi, anzi nell’occhio rimasto, che uno me l’ha archiviato tempo fa, non so quanto tempo fa.

– Che cazzo hai da ridere. Che cazzo ti ridi. Tu devi essere pazza! –

E a questa sua “battuta” ricomincio a sghignazzare come se veramente fossi pazza. Più ripenso alle sue parole più rido. Tossisco e sputacchio nel riprendere fiato. Sputacchio e tossisco sotto il suo sguardo disgustato.

– Smettila immediatamente. Ti ho detto di smetterla, altrimenti… –

– Che fai…mi uccidi? –

E così dicendo ricomincio a ridere più di prima, singhiozzando con lacrime e sangue, tanto sangue.

– Fallo dunque, fallo ora – gli dico provocandolo.

– Ti piacerebbe eh! Ti piacerebbe finire qui. Ma così non sarà. Tu sei mia. Pezzetto per pezzetto –

– E quando lo spezzatino sarà finito? Cosa ti rimarrà di me? Cosa, avanti cosa? –

– Il cuore. Il tuo cuore. Quello lo tengo per ultimo –

Rido, rido e rido ancora. Il cuore. Ma questo-quello è davvero convinto di poter appropriarsi del cuore di una persona così, con un niente, con l’espropriazione dal corpo?

-Anche quando avrai il mio cuore, di me non ti sarà rimasto nulla, perché io non sono mai stata tua. Solo piccoli pezzetti del mio corpo ti apparterranno ma io non sono e non sarò mai tua-.

– Zitta! Zitta. Non voglio ascoltarti. –

– E allora tagliami la lingua, ora fallo ora. Tagliami la lingua e poi passa al cervello. Così non potrò parlare né pensare. E tu avrai la stupidità di credere di avermi tutta per te –

Continuo a ridere. So che in un modo o nell’altro questa è la nostra ultima giornata. Io morirò ma lui rimarrà con la consapevolezza di non avermi mai avuta. Questo mi rende felice. Sono comunque libera di non essere sua. Mai.

Mi guarda. Triste, infelice. Inizia a piangere come un bambino a cui hanno sottratto un giochino nuovo, ma con la coscienza di essere un adulto.

– Farò una cosa per te. L’ultima. Non ti ucciderò, potrai continuare a ridere fino a che la morte non ti porterà con sé. Ma non sarò io a darti la morte. Dovrai aspettarla da sola. E non avrà il mio volto ma quello dei tuoi fantasmi, che non sono i miei che io ne ho altri sai? Credo che non ti piacerà aspettare da sola la Signora, ma te la sei voluta. Io muoio per te. Tu morirai senza aver dato mai a nessuno un pezzetto di te. Io ne ho molti dei tuoi pezzetti questo è vero ma…sono inutili. Come tasselli di un puzzle che non riescono a combaciare perché ne manca uno. Io sono “Il pazzo” per antonomasia. Accosteranno il mio nome alla nefandezza e alla ignominia. Te sarai dimenticata. Solo una vittima del pazzo…nient’altro –

– Se potessi applaudire lo farei…ma non posso farlo ahi me! Con una mano sola è veramente difficile. Ma veramente sai? –

E ricomincio a ridere come una cretina. Singhiozzando e tossendo e sputacchiando. Rido rido e… bang!

“Lui” – quello non è più in piedi davanti al mio occhio. E’ accasciato. Quasi in terra. Un foro in mezzo al petto, all’altezza del cuore. Bisbiglia qualcosa. Strisciando mi avvicino.

– Aiutami, ti prego –

– Certo amico mio, certo –

Prendo la pistola caduta dalla sua mano. La impugno con la mia mano sinistra che ormai non è più anarcoide, anzi negli ultimi tempi si è ben educata, obbedisce perfettamente ai miei ordini e con questa… premo il grilletto. Sulla tempia sinistra di quello… quello lì che ora sta in un altro posto. Lontano da me. Finalmente.

Sento l’ululare delle sirene. Lontano ma forse non troppo. Ho voglia di un caffè. Nero e bollente. Ne ho bisogno. Veramente bisogno.

 

 

 

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