Un desiderio sconosciuto

 L’estate dei miei quattordici anni, quella di Cuando calienta el sol  e del Cornetto Algida, si era preannunciata con distese esagerate di papaveri e il lago, quasi avesse ripudiato il suo aspetto plumbeo, rifletteva il blu vittorioso del cielo. Attraversarlo a nuoto e raggiungere la spiaggia delle Oche era in genere impresa da maschi o almeno io la pensavo come tale. Non so perché, quindi, mi feci trascinare nell’avventura. Forse mi ero stancata di studiare l’aoristo dei verbi – ero stata rimandata in greco – forse lessi nella sfida di Patrizia e Donata, Hai paura?, una certa malizia crudele. Fatto sta che mi trovai nel mezzo del lago dietro a loro due che mi precedevano veloci. Mi fermavo ogni tanto perché stanca ma anche per sentire sulla pelle la carezza scivolosa dell’acqua che odorava di pantano. Il lago ha questo di bello, non ci sono onde, e il tappeto dei fiori di loto e le sponde fitte di pioppi circondano il nuotatore come pareti domestiche e protettive.

Quando arrivai sulla spiaggia, le mie amiche erano sparite. Ero preda frequente dei loro scherzi, perciò dopo averle chiamate a gran voce e senza successo, mi sdraiai sulla sabbia ad aspettare, indispettita e rassegnata. Alle mie spalle c’era un fitto canneto che nascondeva una decina di casotti di legno, piccoli, verniciati di verde, dove i pescatori custodivano i loro attrezzi e dove i bagnanti si cambiavano il costume. La spiaggia delle Oche era popolare, senza pretese, senza difese. I suoi frequentatori erano per lo più operai, casalinghe vocianti e marmocchi maleducati.

Quel giorno, tuttavia, era deserta e silenziosa, e così, quando la parete di canne si aprì all’improvviso con un rumore secco, balzai a sedere spaventata e mi voltai.

Era quanto di peggio mi potessi aspettare: i capelli biondi alzati in un ciuffo alla Elvis Presley, lo slip succinto ai limiti della decenza, il corpo asciutto di chi pratica con agilità qualsiasi tipo di acrobazie e l’abbronzatura opaca e plebea. Tutto muscoli e poca materia grigia, pensai. E decisamente più vecchio di me, forse vent’anni. Vederlo e sentire alzarsi al cielo, imprevisto e assordante, il coro delle cicale, fu tutt’uno. Il sole era diventato così caldo che le perline d’acqua sulla mia pelle interrompevano la loro discesa per evaporare a una a una in rapida successione. Riportai lo sguardo sul lago immobile. Lui intanto aveva cominciato a spezzare le canne, le sfogliava, le ammucchiava sulla sabbia senza dire nulla, senza fischiettare. Sentivo solo il frinire delle cicale, solo il crepitare delle canne spezzate, solo il calore dell’aria ferma che gravava sul lago. E un torpore che catturava a tradimento. Anche senza voltarmi avvertivo che si dava tutto quel da fare continuando a guardarmi. Con la coda dell’occhio studiavo i suoi spostamenti e capivo bene che mi fissava.

E mi veniva sempre più vicino.

Disegnava una specie di danza: si avvicinava, si allontanava, si avvicinava fino a sfiorarmi la schiena. Potevo sentire  l’odore pungente del suo sudore. Volevo andarmene senza dare l’impressione di fuggire, adesso basta, mi dicevo, ma ogni istante che passava rendeva la mia sosta lì, con lui, quasi voluta, come ostinata.

Non appena le cicale cessarono il loro frastuono, finì anche il cricchiare delle canne spezzate e nel silenzio la sua voce mi arrivò rauca e gutturale, vicina alle orecchie, bassa ma non gentile, un ordine secco, vieni, e un sorriso furbo. Aveva eretto, conficcando le canne nella sabbia, una capanna rudimentale, circolare, e mi invitava a entrare. Era brutto, era volgare, era poco pulito. Misi tutto il mio impegno in una smorfia tesa a  fargli capire che lo disprezzavo ma fu in quel momento che sentii tra le gambe un’improvvisa contrazione di muscoli, il crescere di una frenesia che mi pervadeva il corpo e poi un languore che mi comandava di tenere le labbra semiaperte e gli occhi socchiusi. Era un desiderio sconosciuto di perdermi nella canicola e di sciogliermi. Lui mi strinse il braccio e al contatto delle sue dita sentii la mia pelle scaldarsi e un odore struggente di grano. Non c’era nulla in quel momento nella mia testa, nulla se non un giallo abbagliante e torrido, una asciuttezza levigata e arsa.

E qualcosa di umido nel corpo.

Ed ecco che sbucarono dal canneto, irreali, loro, Patrizia e Donata, con un fior di loto tra i capelli e i piedi grigi di polvere, sei qui?, quando sei arrivata?, ti abbiamo cercata… mentre il loro sguardo andava soprattutto a lui che non diceva nulla ed era arretrato di scatto a due passi da me. Mi alzai in piedi decisa a nascondere la mia confusione: tenevo la testa alta per mascherare lo stordimento, ero pronta ad andarmene, finalmente, tutto dimenticato, il giallo del sole, la cedevolezza del corpo, le parole non dette che avevano fluttuato lì, tra il cielo e il canneto, quasi lambite dal desiderio, e… in quel momento lo vidi, il globo opalescente del mio seno destro scivolato chissà quando fuori dal costume, un piccolo rigonfio con l’areola chiara del capezzolo che attirava su di sé tutti i riflettori del mondo e che se ne era stato in bella vista, ingenuo ed invitante per tutto il tempo della mia sosta sulla spiaggia. Un seno che mi appariva ridicolo e grottesco. Le mie amiche mi guardavano ridacchiando, una catastrofe per me, un segnale inequivocabile di carnalità esibita per quella specie di Elvis che avevo lusingato, illuso, provocato. Senza saperlo.

Mi rialzai in fretta la bretella del costume e mi tuffai nell’acqua, sguaiatamente, sollevando ondate di schiuma, tutta la testa sotto, nel buio, per non sentirlo gridare Aspetta, Aspetta,  per non sentire gli Aspetta! Aspetta! delle altre due. Nuotai annaspando nell’acqua che mi sembrava gelida e mortifera senza quasi respirare, senza voltarmi.

Mi avrebbe raggiunto con due bracciate, se avesse voluto. E poi?

Ma non lo fece.

E non lo fecero le mie amiche.

Quando arrivai al pontile della darsena ero senza fiato. Mi stesi al sole, vicino alla panchina dove avevo lasciato la mia grammatica greca e rimasi per un po’ a occhi chiusi recitando mentalmente Come si fa a scomparire, come si fa a scomparire, come si fa? E mi ricordai che proprio lì vicino, un mese prima, era caduta nel lago una bambina di tre anni. L’avevano trovata che galleggiava a faccia in giù in pochi metri d’acqua, il vestito bianco largo e aperto come una corolla di fior di loto.

Non c’è più tempo, pensai, più nulla da fare.

Senza aspettare le mie amiche andai a rivestirmi e tornai a casa con i capelli che gocciolavano ancora e mi bagnavano le spalle.

Ero giovane allora e decisi che avrei dimenticato, mi convinsi che tutti avrebbero dimenticato perché con gli anni sarei diventata un’altra e me ne sarei andata lontano, verso altri mondi, verso altri profumi, verso terre asciutte, verso altre estati.

Lontana da quella me stessa ignota e sorprendente che non sapevo di essere.

Del resto ero piena di convinzioni che il tempo ha saputo smentire, tutte, tante quanti erano i fiori di loto nel lago.

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