Nabopolassa & Sardanapalo

Avevano già fatto la prima iniziazione, quindi intendevano rendere potentissimo l’intelletto dopo la ginnastica e la contemplazione.

Iniziarono col sorgere del sole, all’alba del 21 marzo, equinozio di primavera.

“Salute a te padre mio, salute a te, Helios. Salute a te Helios, anima scintillante del mondo.”

Aspettarono che il sole fosse alto all’orizzonte.

Dopo aver riposato, con la seconda iniziazione volevano procedere sulla strada dei maghi, scegliendo i nomi che avrebbero tracciato sopra di loro il sigillo e l’immagine esoterica della Potenza.

Poi sarebbe venuta la terza iniziazione, con l’espressione di un desiderio, e la seguente preparazione e attuazione.

Da ciò dipendeva la vita e il cambiamento dell’esistenza.

Decisero un certo giorno.

C’erano impresse tutte le lettere dell’alfabeto e i numeri dall’uno al nove e lo zero: formavano un quadrato sul foglio di carta pergamena, aperto e disteso sul tavolo.

Al centro del disegno risaltava un cerchio, come chiaro riferimento di puntamento per l’attrezzo esoterico, il pendolo: un filo di seta lungo poco più di trenta centimetri con appeso un anello d’argento.

Intorno al cerchio, al posto delle ipotetiche direzioni cardinali, si trovavano scritte le seguenti espressioni: “Sì”, “No”, “Non posso”, “Mai sempre”.

Il pendolo venne lasciato all’interno della piccola circonferenza, i due astanti si stavano concentrando, avevano appena terminato la nenia delle parole rituali.

Era un venerdì, un minuto dopo la mezzanotte.

Posero ognuno il proprio pollice sinistro al centro del palmo della propria mano destra e lo strinsero con forza. Respirarono profondamente, inclinarono le teste all’indietro e… qualcosa successe!

Il filo si sollevò, alzando l’anello; un profumo inteso di fiori aleggiava nell’aria. Riaprirono gli occhi raddrizzando gli sguardi: il pendolo rimaneva immobile, adesso, sospeso nel vuoto e indicando il basso. D’improvviso l’anello incominciò

a ruotare su sé stesso, da una parte e dall’altra, con lenti movimenti concentrici; si mosse trascinando il filo a cui era appeso, bloccandosi e inseguendo delle precise lettere che, se lette di seguito, formavano delle parole consequenziali.

Spostamenti positivi e negativi, ambivalenti, al massimo livello. Vennero fuori dei nomi. I loro veri nomi.

Da allora si sarebbero chiamati Nabopolassa uno e Sardanapalo l’altro.

Così avevano disposto i Potenti, per coloro che erano già iniziati, che sapevano molto di magia.

 

Decisero di agire dopo la prima settimana di maggio, in un giorno di splendido sole.

Andarono allora dal vecchio guardaboschi, entrarono in casa sua e lo costrinsero a sedersi. Lo legarono ad una sedia in legno, fatta con dei pioli sullo schienale.

Il vecchio era adatto per morire: troppo debole per resistere, troppo solo e abbandonato per avere affetti.

I due iniziati tirarono fuori dalle loro tasche i manriki kusari. Innamorati com’erano di questi oggetti cruenti e così semplici, ne conoscevano l’uso fin da quando, bambini, percorrevano a piedi, tra gli alberi, il bosco. A quel tempo, leggendo riviste di arti marziali, studiarono la cultura giapponese e costruirono un arsenale in casa, prendendo spunto dalle foto e dai disegni. Il manriki kusari è un’arma micidiale, facile da creare e difficile da adoperare. Alcuni secoli fa, in origine, veniva usata nell’isola di Okinawa, quando alla popolazione locale furono imposte severe restrizioni.

I contadini incominciarono a difendersi tramite gli strumenti adoperati tutti i giorni per lavorare: adottarono nuovi sistemi di lotta. Nacque così il kobudo, la via delle armi, la via dell’antico guerriero. In prevalenza, i semplici giapponesi, si servirono di bastoni, arnesi adatti a battere il riso o il fieno, remi, attrezzi modificati all’uopo.

Il manriki kusari fu uno di questi ritrovati, formato da due pesi di acciaio uniti da una catenella lunga circa settanta centimetri. Nabopolassa fece roteare il suo come una trottola, davanti allo sguardo allibito del guardaboschi.

“Cosa intendete fare con quei cosi?!” chiese il guardaboschi.

“Presto lo saprai.” rispose Sardanapalo, mentre volteggiava  lo strumento sopra la testa, come a caricare prima del colpo fatale. Il guardaboschi aveva gli occhi sbarrati dalla paura, ma non fece in tempo a gridare, perché un colpo improvviso gli arrivò, da dietro, colpendolo sul torace. Sentì una fitta fortissima, un dolore acuto, sul petto, dove il peso era finito. Urlò, urlò forte! Un altro fendente stava per colpirlo, alla testa: lo vide chiaramente, quel ferro, quella piccola catena tesa. Il rumore di ossa rotte non fermò l’esecuzione, anzi! Le ripetizioni dei colpi aumentarono e lo strazio ci fu davvero.

Sardanapalo mirava in basso, alle gambe, all’inguine e all’addome. La tibia divenne il suo bersaglio preferito; non la vedeva, quella gamba, sotto il calzone, che stava diventando nera! Accidenti: l’osso sporgeva dalla carne! Porca miseria, il guardaboschi strillava come un ossesso… Sardanapalo odiava il rumore, le persone che si lamentavano. Avrebbe voluto finirla subito, quella storia, assestando la botta definitiva…

Nabopolassa, invece, era più tecnico ed efficace: feriva preciso, al volto del guardaboschi, con tecniche e sistemi diversi; alcuni denti dell’uomo si scheggiarono, altri saltarono sotto l’impeto della potenza assestata. Nabopolassa era contentissimo, lo sbocco di sangue sulla bocca disastrata del guardaboschi dimostrava quanto era bravo. Finalmente, con un tiro a mo’ di frusta, riuscì a fargli partire un occhio…

“Lasciamolo morire in pace, adesso che è svenuto. Ci servono le sue armi, lui non ci ha fatto niente, dopotutto.”

“Guarda Sardanapalo! Sono stato talmente forte e veloce che il manriki kusari non si è nemmeno sporcato di sangue! Incredibile!”

In seguito Sardanapalo preparò, con calma, le munizioni e i fucili. Caricarono il fuoristrada di tutto quello che serviva. Nabopolassa provò l’automatico mirando a un bidone vuoto in mezzo alla campagna. Il primo colpo si inceppò, chiaro segno che le munizioni erano umide, forse bagnate.

Mannaggia!, pensò, deve essere colpa degli anni. Queste maledette cartucce da sessantacinque millimetri di altezza sono troppo vecchie. La rosata dei pallini è buona, stretta, ma se devo rischiare che mi esploda in faccia il fucile… Meglio provare e poi portarsi dietro solo quelle da settanta, più recenti, corazzate e con quarantadue grammi di piombo…

Le casse di legno furono smistate da Nabopolassa e Sardanapalo. Contenevano molte scatole di cartucce calibro dodici, alcune depositate in cantina da molti anni. Nabopolassa e Sardanapalo scelsero quelle desiderate: le più nuove, le più belle, facilmente distinguibili nello stato di conservazione. I fucili trovati in quella vecchia casa erano a canna liscia, appartenuti a un cacciatore di fagiani e lepri. Potevano usufruire al massimo di cinque colpi ciascuno. Cinque colpi. E i bossoli si potevano incastrare tra l’otturatore e l’estrattore.

In guerriglia il trucco è di riprendere manciate di morte alla polvere da sparo il più velocemente possibile, dalle saccocce e dai contenitori sul cassone della jeep; di munire l’arma con un altro proiettile appena esploso il precedente, caricandolo da sotto, dal foro metallico posto subito dopo il grilletto del fucile. Bisogna sempre tenere quattro colpi nel serbatoio e uno in canna.

“Cosa ne facciamo di Kappa, Nabopolassa?”

“Io direi di lasciarla a casa, lo sai che non sopporta il rumore degli spari e la confusione.”

“Non riuscirà a sopravvivere da sola, lo sai.”

“È troppo giovane per morire, ha solo otto mesi. Troverà qualcuno che l’adotti, ne sono sicuro.”

“Prendiamo anche due machete e dei coltelli?”

“Li ho già caricati…”

“Allora, direi di andare a fare quello che sappiamo compiere meglio.”

“Andiamo, è tardi: la neve non si trasforma in acqua quando è incazzata col sole…”

Partirono bene armati e con tanti viveri appresso.

Lungo la strada videro un barbone di colore disteso su una panchina. Stava dormendo.

Nabopolassa fermò il mezzo.

Sardanapalo scese e guardò il nero sorridere sorpreso. L’accattone stava per sedersi, quando Sardanapalo alzò il fucile e sparò un colpo. La scarica prese in piena faccia il malcapitato, gli spappolò il viso, tutta la testa rimbalzò verso l’alto, mentre la canna fumante ancora sibilava. L’assassino ricaricò con calma.

“Almeno adesso hai finito di soffrire, non hai più problemi. È stata una morte veloce! Negro di merda!”

“Dài, muoviti! Abbiamo da fare!”, disse Nabopolassa.

Giunsero davanti alla sala convegni, dove si teneva un simposio tra politici, preti, industriali.

All’esterno della struttura due vigili urbani e tre poliziotti guardarono allibiti la camionetta scoperta provenire verso di loro, osservarono quella vettura che aveva osato scavalcare i marciapiedi e le zone di divieto. Le forze dell’ordine non ebbero neanche il tempo di ragionare, e di accorgersi dei fucili. Nabopolassa e Sardanapalo spararono a bruciapelo dai finestrini abbassati. Gli uomini in divisa caddero a terra di colpo, come birilli, uno subito dietro l’altro, presi al volto dai pallini. I loro corpi rimasero lì, per terra, vibranti, negli ultimi istanti prima della dipartita.

Di seguito i due amici saltarono con la jeep sopra gli scalini d’entrata del palazzo e sfondarono la vetrata principale.  Solo a quel punto spensero il motore e scesero, stando ben attenti a dove mettevano i piedi; pronti, in caso di pericolo, ad ogni evenienza. Nessuno li attendeva all’ingresso, non c’era il portiere, il pubblico era scarso: accoliti presenti e parenti, dipendenti e amministratori. C’erano i perplessi. Coloro che avevano mangiato per anni; i collusi con la mafia; i furbi diventati ricchi, come i santi, istupidendo la gente di paura. I fautori dell’ignoranza.

Fu un macello.

La signora, quella seduta in prima fila, con la gonna larga e a fiori, scappò in gabinetto. Sardanapalo la inseguì, pose la canna all’altezza dell’inguine della preda. Lei pregò a mani giunte, pianse disperata, sostenne che sarebbe stata zitta, che non avrebbe parlato. Sardanapalo girò il calcio e il manico, stropicciò il tessuto colorato del vestito della donna. La vide in un ultimo sussulto.

Bum… bum! Due scoppi, a breve distanza di tempo l’uno dall’altro. Però muoveva un braccio, era ancora viva.

Un muscolo, forse il tricipite femorale, faceva bella mostra tra i brandelli. Urlò forte! Sardanapalo questa non la poteva sopportare! Non resisteva, lui, al rumore! Quel rumore, quella voce così forte e stridula… Quindi le staccò la testa col machete: non voleva sprecare altri proiettili.

Accidenti, in altri tempi avrei sfruttato meglio la situazione, ma oggi non posso, ci sono troppe cose da finire…

Nabopolassa, compiuta la sua parte, era tornato indietro e attendeva l’amico dentro l’abitacolo, al posto di guida della macchina: stava ripulendosi dal sangue con una giacca raccolta là dentro, poco prima, tra le poltrone del teatro.

Aveva squartato un essere viscido: il tecnico comunale che mai regolò alcun piano urbanistico senza fare danni.

Come era strano, la gente rimaneva negli appartamenti e nei condomini, nessuno osava uscire dalle proprie stanze…

In quei momenti decisivi per tutti, per il bene della popolazione, le persone osservavano da dietro i vetri delle finestre, con le porte chiuse oziavano nelle case.

Nei locali commerciali, nei bar non si udivano rumori.

“Bene, anche questa è fatta.” disse Sardanapalo, “Proseguiamo.”

Lasciarono il centro.

In lontananza sentivano il suono delle prime sirene.

Le pattuglie di polizia sembravano avvicinarsi.

La loro casa e, vicino, l’accampamento dei nomadi, erano poco distanti. Fermarono la jeep sotto un albero e aprirono i fardelli posti sopra il cruscotto. Avevano riservato alcuni panini. Presero pure tre lattine di birra e due mele dal frigo portatile, posato per terra, sul tappetino, davanti ai piedi di Sardanapalo.

“Certo che la vita è strana: quando meno te l’aspetti ti cercano tutti.”

“Già, sembra incredibile! Fino a qualche ora fa li abbiamo sempre cercati noi, ‘sti coglioni! Per un lavoro, per un consiglio, una sussistenza.”

“Non ci fermeranno mai.”

“Già!”

“Al diavolo! Facciamola finita!”

Terminarono la merenda e ripartirono: la strada era in discesa e la marcia inserita. Girarono tra i camper e le roulotte, fecero fuoco all’impazzata appena vedevano muoversi qualcuno; tra i bambini, in mezzo al campo, dove le donne con le gonne lunghe e sudice si difendevano come potevano, tirando sassi, pietre, bastoni.

Ma cadevano, una dopo l’altra, tutte quelle persone. Nabopolassa e Sardanapalo inseguivano chi capitava. Alcuni, inermi, osservavano inebetiti, aspettando la morte; altri, dopo aver cercato di evitare l’impatto, cozzavano addosso al paraurti della vettura che li braccava, passando sotto le ruote maggiorate e finendo maciullati.

Dopo le morti giunse la calma, la calma assoluta. Nabopolassa e Sardanapalo proseguirono la marcia.

Allontanandosi da quel macello il percorso divenne dritto, l’asfalto lineare prese il posto del ghiaino e del fango.

La macchina quasi procedeva da sola.

Misero ognuno le canne dei fucili nelle rispettive proprie bocche.

Sembrò di sentire un unico suono.

 

Kappa riuscì a fuggire dalla baracca, che Nabopolassa e Sardanapalo definivano casa, un attimo dopo l’arrivo della polizia. Nessuno badò a lui.

Seguendo la traccia, lasciata dai suoi amici umani, capì che doveva correre parecchio prima di raggiungerli.

Kappa era un setter irlandese rosso e bianco: una bellezza, una vera bellezza.

L’ automezzo di Nabopolassa e Sardanapalo si trovava vicino alla zona industriale, fuori dal centro abitato, fermo e distrutto contro un palo della corrente elettrica. Il cofano fumava ancora. Nabopolassa aveva spaccato il vetro del finestrino con la testa; il suo corpo fuoriusciva a mezz’aria, riverso dalla portiera, il braccio destro rotto e intrappolato tra le razze del volante. Sardanapalo era incastrato tra i sedili, appoggiato al cambio col sedere, bloccato dalla cintura di sicurezza messa poco prima di morire.

Il cane guaì, avvicinò il naso alla macchia di sangue che si allargava sulla strada: dall’orecchio di Nabopolassa scendevano gocce a cadenza irregolare.

Un bambino passò in quel momento.

Presto molte altre persone sarebbero arrivate.

“Ciao bel cane, come ti chiami?”

Kappa non poteva rispondere: mordicchiò il bambino sulla mano, afferrandola tra i denti, e lo portò lontano dall’incidente.

Avrebbero avuto tutta la vita davanti, per amarsi e rispettarsi.

Per pensare.

Erano tutti e due molto giovani. 


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