Lucrezia

Lucrezia entrava  lì, da mesi, ogni giorno, alla stessa ora.

Era l’unica Chiesa aperta a mezzogiorno, dove poter rinchiudersi come nel tuorlo rosso e nutriente di un uovo. E Limbania l’aspettava, ogni giorno, alla stessa ora. Era quasi un’amica, ormai, pronta a sedersi al suo fianco per ascoltare le sue inquiete parafrasi dei giorni. Nulla di poetico,  solo parafrasi, come a scuola, dove la poesia non veniva colta come un fiore all’improvviso ma analizzata, ridotta all’umana  comprensione.  Lucrezia non riusciva più, da mesi, a cogliere nessun fiore. Voleva solo capire, trovare i perché alla sua tristezza, e redigere un quadro clinico del suo malessere spirituale. E Limbania l’ascoltava, ogni giorno, alla stessa ora, in quella cella satura d’odore di cera, con la pazienza e la comprensione che solo le statue possono avere. Era un’amica. E le rispondeva con le risposte che Lucrezia voleva sentire da un’amica, e con quella dolcezza che in qualche modo doveva costruire dal nulla, ogni giorno, per sopravvivere alla sua tristezza, o depressione, come la chiamava sua madre. “Grazie” diceva a Limbania prima di andarsene, ed il suo grazie era sincero. 

Uscendo Lucrezia guardava le piante nei vasi, ben disposte sul minuscolo sagrato, tanto simile ad un terrazzino curato da una nonna – “Avrebbero bisogno di concime e di travasi” – diceva fra sé – “ ed i gatti di qualche carezza in più”.  Accarezzava ogni volta quello rosso, con i calzini bianchi e la coda a righe.  Manciate di pelo le rimanevano fra le dita. Poi si sciacquava le mani alla fontanella, e tornava a casa.

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