L’anello del morto

Cercavo in continuazione di convincermi che il mio era un lavoro come un altro; ero pagato molto bene, i miei orari erano elastici, e in più non superavo mai le cinque o le sei ore di lavoro al giorno. O per notte. Inoltre stavo molto a contatto con la gente; persone di ogni tipo, in particolare medici e infermieri, poliziotti o legali, uomini e donne di ogni rango sociale: dai poveracci ai ricchi sfondati. Ma soprattutto stavo sia con i vivi che con i morti.

 Lavoravo all’obitorio.

Non mi sono mai convinto che il mio fosse un mestiere come un altro; non lo era. Dare il belletto rosa a quei volti marmorei e pettinare i loro ancor vivi capelli, mi dava a volte l’impressione di lavare dove c’era solo fango. Profumare di violetta le loro tempie e costringere unite le loro mandibole spalancate mi dava la sensazione di giocare con delle bambole di pezza. Dovevo vestirli, ed era come vestire dei manichini imbottiti di pietre; per questo il mio fisico era robusto e vigoroso, come se frequentassi una palestra. Qualche volta dovevo coprire lividi, tumefazioni o ferite, ed era come tentare di sbiancare il cielo plumbeo in quelle strane sere d’estate, così cariche dei temporali d’agosto.

Il mio lavoro era soprattutto quello di lavare e comporre le salme dopo l’autopsia, affinchè i parenti e gli amici potessero dare il loro ultimo saluto al caro estinto, quel saluto beneducato che non voleva neppure immaginare i punti di sutura che, sotto agli abiti della festa, tentavano di chiudere come tarantole aggrappate alle carni, gli squarci di quei ventri che racchiudevano, il più delle volte, soltanto paglia.

Una volta mi toccò una bambina di nove anni; era morta di leucemia, e quando giunse da me e mi dissero l’età, io pensai che erano già nove anni che lavoravo in quel luogo.

Perdonatemi, ma non ci si possono permettere troppi sentimentalismi, se si lavora all’obitorio da nove anni; non pensiate ch’io sia cinico; è l’unico modo, questo, per non impazzire, anche se non si è troppo sensibili come me.

Sulla sua cartella clinica, vidi che lei nasceva stranamente lo stesso giorno in cui io iniziavo il mio lavoro all’obitorio; nasceva qui, in questo ospedale, dove io vomitai la prima volta davanti a un cadavere; stavo male probabilmente come sua madre mentre la metteva al mondo, ed ora quella bambina era tornata, più candida e fredda del tavolaccio che la sosteneva. Si chiamava Laura, lo ricordo bene. Ricordo che sorrideva e aveva gli occhi aperti. Non so perché non glieli volli chiudere. Di solito chiudo gli occhi ai morti, ma Laura sembrava guardare qualcosa di talmente bello che mi sarebbe sembrato di farle un torto. Ero così rapito dal suo sguardo che mi sorpresi a guardare in quella direzione. Naturalmente non vidi nulla.

Iniziai il mio compito: nascosi i numerosi buchi degli aghi dall’incavo delle sue braccia con del fondotinta, e spalmai un delicato rossetto color salmone sulle sue labbra grigie. Come sono fragili i cadaveri; basta una svista e gli spezzi un dito.

Povera Laura, perdonami. Ti chiuderò gli occhi.

Così scorreva la mia vita accanto ai morti. Sì, perché la mia era davvero VITA. Mi sentivo più vivo di qualunque altro essere umano al mondo.

Una notte successe che mi portarono un uomo. Mi dissero che era morto di infarto e che aveva settant’anni. Lo portò un lettighiere; l’uomo era già vestito perché – mi disse l’inserviente – era morto sull’ambulanza, durante il trasporto in ospedale. Mentre firmavo qualcosa, notai che la giacca del defunto non c’entrava nulla con i pantaloni e con la camicia; lo notai perché mi sembrò un uomo di una certa classe.

Chissà; forse, nella fretta, gli avevano messo addosso la prima cosa che gli era capitato di prendere.

«Si tratta solo di registrarlo e congelarlo per poche ore. Poi vattene. Non hai forse già finito il tuo turno? Che hai da guardare? Questo è stato il suo secondo e ultimo infarto, e tu farai meglio a non fare domande». Il lettighiere mi guardava dritto negli occhi, la sua faccia era talmente vicina alla mia che potevo percepire il sentore della sua bocca guasta, e mentre mi diceva quelle parole, sentivo che infilava qualcosa nella tasca del mio camice. La porta si chiuse infine alle sue spalle, e il solito, rassicurante alito gelido tornò a farmi compagnia.

Ogni volta che entrava un uomo vivo, finiva per rovinare l’atmosfera sacra di quel luogo.Guardai il mio nuovo cadavere.

L’uomo aveva gli occhi chiusi. Strano. Non aveva riversamenti di sangue sottopelle, alla base delle orecchie. Molto strano. Avevo visto parecchi infarti e udito dai dottori molte descrizioni di quel tipo di decesso, e tutti gli indizi mi lasciavano intendere che costui non era affatto morto di infarto coronarico. Mi guardai attorno come un imbecille che gioca a fare l’investigatore, infine decisi di sbottonare la giacca di quell’uomo. Non notai ancora nulla di particolare, a parte il fatto che la giacca era nuova di zecca: aveva ancora pinzata l’etichetta col prezzo sulla manica sinistra. Da quella manica sbucava una mano che pareva di madreperla, e un grosso anello con uno zaffiro era infilato al suo dito mignolo. Forse qualcuno, dentro la mia testa, mi sussurrò di toglierlo dal suo dito e così feci; me lo ficcai in tasca. Ero diventato talmente lesto nello spogliare e rivestire corpi umani che in pochi attimi gli sbottonai la camicia; un forellino nero bucava la sua pelle proprio sotto il cuore, e un altro alla bocca dello stomaco. Neanche una goccia di sangue fuoriusciva da quei fori, e ora che me ne rendevo conto sempre più, seppi che quell’uomo non poteva affatto essere morto sulla lettiga, perché era già in atto il rigor mortis. Senz’altro era deceduto qualche ora prima.

Lo ricomposi e lo cacciai in fretta nel cassettone d’acciaio per congelarlo prima possibile.

Uscii, non so più se fiero della mia scoperta, infastidito dalla mia stessa curiosità, oppure spaventato per le conseguenze. Quali conseguenze potevano seguirne? Stavo obbedendo a degli ordini. Ma da quando un lettighiere poteva impartirmi degli ordini? Mi venne in mente che non c’era stato nemmeno un medico di guardia, con lui, ne’ un parente o un amico del vecchio, ne’, tantomeno, un carabiniere, visto che costui non era morto in ospedale; c’era stato soltanto un silenzioso viavai di persone.

Mi sentii sporco, e per la prima volta dopo tanti anni, puzzare di morte. Mi sentii responsabile dell’anima di quell’uomo, io, che ero sempre stato responsabile solo dei loro gusci vuoti. Andai a casa e guardai l’orologio: erano le sei del mattino.

Piombai sul mio letto e mi addormentai quasi subito.

Laura aveva indosso un vestitino con disegnate sopra tante minuscole margherite, e altre ne raccoglieva nel giardino attorno a lei. Mi guardava e mi sorrideva come se le avessi fatto uno scherzo:

«Perché mi hai tolto l’anello?» – mi chiese ridendo.

«Io non ti ho tolto l’anello.» – le risposi.

«Sì che me l’hai tolto, guarda: mi hai anche fatto male a un dito…» – e mi mostrò un ditino completamente sano tra le margherite che aveva in mano.

«Se l’ho fatto, scusami, tesoro.» – le dissi.

Lei mi strizzò l’occhio e poi prese a cantilenare una strana filastrocca:

«Non importa. Porta via i soldi con una sporta e porta l’anello a chi importa.» – Poi se ne andò saltellando.

Aprii gli occhi di scatto e la prima cosa che vidi fu il mio camice, riversato a terra all’ingresso del mio appartamento. Caddi dal letto, Laura era ancora presente, la sentivo, fu come se mi avesse aiutato a rialzarmi. Raccolsi il camice e dalla tasca uscirono delle banconote di grosso taglio. Allora seppi cosa dovevo fare. Presi l’anello, che stava ancora nell’altra tasca, e lo studiai con cura. Era molto vecchio e particolarmente raffinato. A forza di toccarlo scattò infine qualcosa e lo zaffiro si alzò di qualche millimetro.

All’interno dell’anello c’era un microfilm. Mi avviai alla Centrale di Polizia e raccontai tutto.

Be’; non proprio tutto; non dissi che era stato un angelo di nove anni a far sì che si scoprisse una delle più grosse partite di droga che mai fossero state scoperte. Questa droga fu sequestrata appena in tempo; stava per essere imbarcata su delle navi mercantili, nel porto di Genova; entro quarantotto ore furono arrestati in diversi paesi del mondo una trentina di potenti narcotrafficanti, oltre ad alcuni dipendenti dell’ospedale, e qualcuno mi accusò di essere una spia e che l’avrei pagata cara.

Non conosco le motivazioni precise ma, qualche tempo dopo, tre governi in Europa caddero; alcuni capi di Stato morirono misteriosamente, qualche Presidente del Consiglio fuggì, due Cardinali restarono a proclamare la propria innocenza, e certi Amministratori Delegati di importanti società americane si tolsero la vita.

Altre vite, molte di più, scamparono invece a quella droga.

Ognuno ha i propri morti a cui pensare, e costoro, talvolta, pensano a noi. Lo fanno in un modo che non ha nulla a che vedere con i codici dei vivi, talvolta lo fanno senza conoscerci, infine lo fanno perché i vivi, spesso, non ci riescono.

La polizia volle lasciarmi il grosso anello con lo zaffiro, ma io non ebbi mai il coraggio di metterlo.

Adesso riesco a vederlo; è infilato al mio anulare sinistro, ma non mi dà noia. Laura è qui con me. Indossa ancora il suo vestitino di margherite e mi tiene per mano. Io invece sono vestito di bianco, e sto guardando il mio corpo, più bianco del mio vestito, sul quel tavolaccio di acciaio gelato. I miei occhi hanno lo stesso sguardo meravigliato che avevano quelli di Laura, poco tempo fa, e il mio petto è bucato da tre forellini rosso scuro.

Il mio collega e amico Filippo mi sta raccontando qualcosa che non riesco a udire bene e la mano di Laura si fa sempre più calda. Filippo mi sta pettinando con delicatezza; è proprio bravo; poi mi chiude gli occhi e chiude anche i suoi per un momento.

Laura mi sta tirando per la mano, io mi volto e vedo una porta che non avevo mai notato prima.

Così entriamo, e io mi rendo conto di non essere mai stato così felice. 

 

Tiziana Stanzani © 2011


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