La matricola.

 

Ero chiusa in quel campo da alcuni mesi, ero senza identità, senza i miei vestiti, senza i miei affetti. Ero una matricola e lavoravo, lavoravo sempre. Ero stata selezionata per il lavoro. Con me tante altre donne, alcune molto più giovani di me che allora avevo 36 anni. Tutte anime senza pensieri, senza più nulla, che vagavano come fantasmi trasportate da urla incomprensibili di uomini in divisa verso luoghi di lavoro indescrivibili, senza pause, senza risposo, senza pietà. Alcune morivano di tanto in tanto, altre, ancora, in preda ad un qualche lontano fervore, provavano a ribellarsi a quelle urla sguaiate, a quelle voci metalliche di individui disumani e venivano fucilate senza pietà e senza rimorso, e subito rimpiazzate da altre povere vittime senza più nome. Vedevo spesso una ragazza, avrà avuto 18 anni, sembrava una bambina. Mi aveva presa in simpatia forse, o forse le ricordavo la madre, ed in preda alla disperazione veniva a chiedermi costantemente,  a voce bassa per non farsi sentire, qualcosa da mangiare.

-Ho fame, ho fame, ho fame’ ripeteva in continuazione.

-Lo so che hai fame, abbiamo tutti fame. Non posso farci niente- le rispondevo. Non volevo parlare, non volevo vedere, non volevo sentire. Ma purtroppo continuavo a vederla e a sentirla.

 E non riuscivo ad essere indifferente. Sembrava più piccola, aveva il viso tirato e spaventato, ogni volta che sentiva le grida si faceva piccola piccola, così piccola che mi si stringeva il cuore, nonostante tutto. Ma la fatica, la fame, la sofferenza offuscavano ogni cosa, ma soprattutto erano i ricordi a non volersene andare.

-Voglio la mamma- mi diceva quando la disperazione nera le anneriva anche gli occhi che le si facevano cenere di fronte a quel dolore. Ed io la amavo e la odiavo al contempo, perché ero stata madre anch’io fino a pochi mesi prima, e dei miei figli serbavo ormai un unico ricordo, la loro disperazione e le loro grida che riecheggiavano in quel vagone dal quale fummo buttati fuori in direzioni diverse.

Piansi, piansi fino a vomitare, fino ad essere bastonata da questa specie di energumeni. Piansi tutto il dolore. Poi di colpo smisi e decisi di morire, così come forse anche i miei figli erano morti. Non lo ero fisicamente, ma era come se lo fossi.

Finchè non incontrai questa ragazza che mi toccò il cuore. Che andò a scavare laddove non doveva e mi riportò a galla i ricordi felici, quelli che avrei dovuto conservare per la vecchiaia, quando i miei piccoli erano ormai adulti ed io potevo finalmente riposare e cullare il mio passato in attesa della morte. E invece questi ricordi qui dentro erano come forche conficcate nel cuore che mi scuotevano fino a farmi male fisicamente, più del freddo, più della fatica e della fame.

Ma la guardavo e i suoi occhi erano impauriti e tristi e io volevo aiutarla. Non riuscivo a vederla affamata, avrei voluto aiutarla, avrei voluto tagliarmi la carne per farla mangiare se avessi avuto un coltello. Mi azzardai a chiedere qualcosa ad uno di quegli uomini gridando che era una bambina e per tutta risposta ricevetti il fucile in faccia e la ragazza fu pestata. Non parlai più, non chiesi più nulla. E nemmeno la ragazza disse più nulla. Continuammo a lavorare, a dimagrire, a lottare con i morsi della fame che ci attanagliavano lo stomaco e con la voglia di morire che si faceva sempre più vicina. Quella morte che faceva tanta paura quando eravamo felici, perché ci avrebbe privato di godere ancora un po’ di ciò che amavamo, e che ora, invece, era l’unica compagna vera, certa, l’unica amica che avrebbe potuto salvarci da tanta sofferenza.

Vedevo la ragazza sempre più sofferente e debole. A volte non riusciva a svegliarsi e sentivo le guardie che le inveivano contro. Avevo sempre il terrore che la fucilassero. Avrei voluto fare qualcosa, lei era giovane. E sarebbe bastato così poco per salvarla dalla morte, così poco. Sarebbe bastato un briciolo di umanità. Ma lì non c’era, era rimasta chiusa in quel treno di poveri disgraziati stipati come bestie.

Un giorno non si svegliò. La chiamarono, la insultarono, la malmenarono ma lei non si svegliò. Era morta. Ed io piansi. Piansi di nuovo fino a vomitare, fino a farmi bastonare. Per giorni piansi e presi botte. Non  mi uccidevano perché ero ancora buona per lavorare. Poi smisi. E non piansi più. Decisi di morire. Quello fu l’ultimo respiro che esalai da viva, nonostante non fossi morta. Aspettavo solo il giorno in cui anche il mio corpo si sarebbe deciso ad accompagnare la mente in quel viaggio di pace, in cui avrei rivisto i miei amati e i miei bambini che mi avevano preceduta, ne ero sicura. Ma non successe nemmeno questo, non riuscii a morire lì dentro. Fui liberata e non fui felice. Ero sola, i miei figli erano morti, così come tutti i familiari.

Li sogno di notte e li vedo di giorno, come fossero fantasmi lontani. Sono morta anche se viva. L’unica cosa che ho deciso di fare, prima di tornare alla mia morte apparente, è di scrivere questa storia, per lasciarla alla memoria. Non sono riuscita a salvare quella giovane donna, che si è lasciata morire ormai vinta dalla paura, non sono stata capace di salvare i miei figli e nemmeno me stessa, ma non posso non ridare dignità alla loro memoria. Affinchè non accada ancora una tale disumanità, affinchè chi domani avrà una ‘vita vera’ possa amarla ed apprezzarla profondamente per quel che è, per quel che può dare. Perché anche solo poter mangiare è dignità e gioia, e l’avere un figlio al fianco è un grande immenso onore.  Perché nessuno permetta più un simile orrore.

Ora torno nell’attesa.

Una qualunque, una matricola.

 

(Dedico questo racconto al caro Salvatore Nocente,  Carabiniere deportato in quegli anni, medaglia al Congresso di Lecce, …. e che riusci a scappare dai campi di concentramento con una bicicletta senza copertoni percorrendo infiniti  chilometrori  che lo riportarono in Patria dalla sua Famiglia)

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