La finestra sui sogni

LA FINESTRA SUI SOGNI 

 

Primo giorno

 

L’unico modo che l’anziano ospite d’ospedale aveva a disposizione per guarire le  sue piaghe da decubito, consisteva nel rimanere prono sul suo letto di dolore per almeno una quindicina di giorni. Quell’uomo sopportava con inquieta rassegnazione il suo destino di malato; costretto sul proprio giaciglio, dopo le aderenze e svariate complicazioni gastriche, si erano venute a formare delle dolorose vesciche in diversi punti della sua schiena e sui talloni, così, per sopportare meglio quell’ultima settimana di immobilità, si vedeva costretto a subire i ricordi della propria vita con gli occhi rivolti verso il basso.

In ospedale c’è molto tempo per pensare; quasi quanto quello per soffrire. Non si era nemmeno reso conto – o piuttosto non gli importava – che gli era stata assegnata una stanza per due persone.

«Come andiamo, oggi?»

Una voce davvero confortante, senz’altro più di quella dei medici o degli infermieri, gli sfiorò i timpani, e lo costrinse a girare il collo verso il suo nuovo compagno di cella. Lo guardò senza rispondergli. Il nuovo ospite, seduto sulla sedia metallica, capì immediatamente la situazione:

«Lo so, lo so… era solo per fare un po’ di conversazione. Sa, vivo solo; mia moglie è morta cinque anni fa, così nessuno mi viene a trovare, ma se non ha voglia di parlare, non fa niente. L’importante è che si senta ogni giorno un po’ meglio.»

«Mi sento meglio, grazie. Infatti, non ho voglia di parlare, ma non mi infastidisce se vuole farlo lei» rispose, quasi a denti stretti, il paziente sdraiato.

Un’altra voce, poco dopo, senz’altro più squillante e decisamente sguaiata, squarciò quell’atmosfera che odorava di garze e di muffa; l’infermiera entrò declamando una bellissima giornata di ottimismo:

«Su, dormiglioni, è l’ora delle medicine!»

 

 

Secondo giorno

 

«Come sta oggi?»

L’altro non rispose.

«Ieri aveva affermato che se avessi voluto, avrei potuto parlare da solo».

«Faccia pure» rispose l’uomo sdraiato di pancia.

«Le voglio descrivere il cielo. Oggi è di un blu intenso, talmente forte che anche il parco sembra più verde. La fontana qui sotto è circondata dai passerotti, e ci sono molti giovanotti vestiti di bianco che seguono un signore piuttosto anziano. Chissà: forse è il primario del reparto di Medicina Interna, e i giovani sono laureandi. Davvero sembra tutto migliore, con il sole! Pare quasi che la sua luce bruci ogni malattia… Non le sembra? La disturbo? Me lo dica, eh? Non si faccia scrupoli…»

«Per me può andare avanti.»

«Ma mi sta ascoltando, almeno un pochino?»

«Non tanto.»

«Sta pensando a quanto è stato sfortunato, vero?»

«Ecco: adesso comincia a infastidirmi.»

«Mi perdoni. Sarebbe comprensibile da parte sua. Posso chiederle quanti anni ha?»

«Mi parli ancora del sole, io non riesco nemmeno a immaginare di alzarmi.»

«Il sole… adesso c’è una nuvoletta color latte che gli gira attorno, ma non lo sfiora nemmeno. To’… ecco un bambino con l’aquilone. Ci dev’essere il vento; vuole che apra la finestra?»

«No, grazie…»

«Questa giornata mi ricorda il mio primo giorno di militare. E’ buffo ripensarci adesso… sono passati talmente tanti anni… Erano tempi così diversi; ricorda quegli anni, vero? Io e lei dovremmo avere circa la stessa età. Era da poco finita la guerra, ma la vita nell’esercito era ancora dura, come se di lì a breve ne sarebbe dovuta scoppiare un’altra… Da ragazzo ero sfollato in una cascina, vicino a Piacenza, e la cartolina rosa mi giunse poco prima del nostro ritorno a Milano… quanto fu bella l’estate del ‘45…»

Un lamento salì dal giaciglio accanto; la ferita alla pancia riprese a bruciare, ma il dolore era di gran lunga preferibile a quello delle piaghe da decubito.

«Adesso le chiamo l’infermiera, non si muova.»

«Lasci perdere, è passato.» L’uomo seduto alla finestra accavallò le gambe, e immerse i suoi dolci e umidi occhi azzurri nei propri ricordi:

«Lasciavo una ragazza per continuare una finta guerra in caserma, e lasciavo la drogheria che avrei dovuto avviare con mio padre; sa, lui era un invalido dalla Grande Guerra; se ne tornò a casa senza una mano… be’; tutto sommato, niente di così grave rispetto agli orrori che vide: una granata può fare di peggio. Ma la mia partenza e le mie due mani gli sarebbero davvero potute venir buone! Pensi che mi spedirono a Conegliano; il ricordo del freddo che patii l’inverno successivo non posso descriverglielo, perché il calore del sole che brilla oggi, mi confonde un po’ il ricordo… Oh… laggiù si vede il mare, lo noto soltanto adesso; una grossa nave da crociera sta attraccando al porto… quanto è bianca… ma non voglio divagare…»

 

Terzo giorno

 

«Vedo che oggi riesce a stare su un fianco.»

«Com’è il tempo?»

«Oggi è un po’ coperto, ma si sta aprendo. Ma guarda un po’: in lontananza c’è una banda che probabilmente sta facendo le prove per la festa di Santa Margherita, che ci sarà stasera… purtroppo, con questi doppi vetri non si sente nulla, peccato.»

«Vorrei poter guardare fuori… chissà se domani mi faranno alzare.»

«Lei se la sente?»

«No, ma sono talmente stufo di stare a pancia in giù, che non può immaginare.»

«Porti ancora un po’ di pazienza… nel frattempo posso continuare a descriverle cosa accade fuori di qui!»

«Sì, per piacere, continui. La fontana è in funzione, oggi?»

«Eccome; e ci deve essere anche più pressione rispetto a ieri: lo zampillo sarà alto almeno tre metri. C’è un bimbo piccolo con due barchette di carta legate a un filo. La sua mamma non lo perde di vista un attimo. Peccato che non possano vedere l’enorme nave, laggiù al porto… da quassù c’è un panorama splendido. Ha fame?»

«Non molta, e lei?»

«Nemmeno io, ma bisogna mandar giù qualcosa. Vuole che l’aiuti? In quella posizione deve essere difficile ingoiare qualcosa che non sia la noia!»

«No, grazie. Ce la faccio.»

 

Quarto giorno

 

Quella mattina, l’uomo a pancia in giù si accorse quasi subito che stava parlando da solo; serrò gli occhi, come per trattenere le lacrime, che questa volta non erano causate dai morsi delle suture, ma da un panico ancor più paralizzante di quel letto:

«Infermiera, dove avete portato il mio compagno di stanza?»

«Eccomi! Non urli così! C’è gente che ancora dorme, in corsia! Come, non se ne è accorto? Stanotte ci ha chiamato… si vede che lei dormiva profondamente, per non sentire nulla! Buon per lei!»

L’infermiera era piuttosto magra, e la sua voce possente non c’entrava nulla con il suo aspetto:

«Niente di preoccupante: ha avuto un’emorragia, ma il dottore è intervenuto in tempo… stia tranquillo, tra poco glielo riportiamo sano e salvo!»

«Mi sentivo solo…»

L’uomo voltò la testa, ma per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a vedere quella finestra, se non con la coda dell’occhio: percepì solo le tende tirate, e la sedia del suo amico, fredda e vuota. Ancora due o tre giorni e avrebbe potuto finalmente alzarsi, affacciarsi, e guardare negli occhi quell’uomo che tanto riempiva e scioglieva quel suo tempo così vuoto e rigido. Un tempo che ormai cominciava ad assumere un contorno, ad avere un senso quasi logico; nemmeno lui riceveva visite. Le malattie degli altri tengono lontano tutti, anche se non sono contagiose. Il suo cuore si stava però ammorbidendo, e stava pregando per la salute di quell’uomo. Uno sconosciuto, in fondo, ma che era giunto fino a lui come un angelo che plana sull’anima…

«Ha visto che non l’ho abbandonata?»

«Mio Dio, che sollievo… come sta? Mi ha spaventato non vederla, stamattina!»

«Sono cose che capitano, non crede? Specialmente in un posto simile!»

«E’ molto pallido… per oggi è meglio che ne stia a letto, e che si riposi.»

«Sta scherzando? E poi chi dorme, stanotte? Non vorrà restare sveglio anche lei, ad ascoltare le ciance di un povero rimbambito! Dov’è la sedia? Vediamo cosa c’è di nuovo, nel mondo!»

«Oggi sono tutt’orecchi! Mi parli di sua moglie!»

«Mia moglie era bellissima, più bella ancora di questa alba che spunta da dietro le montagne… più affascinante del mare, che stamattina sembra invaso dall’argento liquido, e più dolce del sorriso di quel bimbo laggiù, che corre verso suo padre…»

 

Quinto giorno

 

È incredibile come, con le parole di un altro, il significato della propria vita assuma contorni diversi, seppur mantenendo gli stessi tratti. Ancora una volta girato su un fianco, l’uomo sul letto poteva vedere il suo amico seduto, e talvolta non lo udiva affatto; altre volte, invece, sentiva le sue parole, ma non ne ascoltava il significato; seguiva semplicemente il movimento delle sue labbra, così come un neonato non capisce le parole della madre mentre lei sussurra dolcemente all’orecchio.

Talvolta si addormentava al suono di una sua lieve risata, o di un sospiro; il tempo scorreva tra una chiacchierata e una descrizione del paesaggio, che cambiava ad ogni palpito del cuore di entrambi.

Un tuono fragoroso squarciò il cielo, e il lampo che precedette fece sobbalzare l’uomo sdraiato sulla pancia.

«Cosa è stato?» Chiese il vecchio seduto.

«Non ha visto il lampo entrare dalla porta? Tra poco toccherà tapparci le orecchie di nuovo!»

«Sì… il cielo è plumbeo. Non volevo dirglielo… l’avrei intristita. Ma anche il temporale ha il suo fascino: mi piacerebbe uscire, e sentire i primi goccioloni colpirmi la testa… A volte torno bambino, non ci faccia troppo caso: a una certa età, come i bambini si perdono i denti, si torna pelati, ci si fa la pipì addosso… e si vorrebbe correre fuori a mettere i piedi nelle pozzanghere!»

Un altro rombo da raggelare il sangue eruppe nella stanza, e uno scroscio di cascata lavò completamente il silenzio sottostante. Entrambi chiusero gli occhi, entrambi stettero soli alcuni secondi, ad ascoltare la pioggia, ben sapendo che l’altro era lì accanto.

«Chi c’è giù, ora?» Chiese l’uomo sdraiato, con tono quasi divertito.

«Non vedo niente.»

«C’è troppa acqua?»

Il vecchio non rispose subito.

«Tra un paio di giorni dovrebbe riuscire ad alzarsi, non è vero?»

«Vorrei provarci oggi!»

«Non sfidi il destino – disse, fissando di fronte a sé – è arrivato fin qui… porti ancora un po’ di pazienza.»

 

Sesto giorno

 

Via i punti. Come tarantole fameliche, le suture nere avevano lasciato il posto ad alcune smagliature rosse, e le piaghe posteriori si erano cicatrizzate anch’esse, lasciando libera la fragile pelle dei lombi e dei talloni. Finalmente supino, ma immobile sulla ciambella di gomma e coi ginocchi vicino al viso, l’uomo fissava grave il suo amico che giaceva sul proprio letto, e la cui faccia era racchiusa nella maschera per l’ossigeno. Il respiro fioco, gli occhi chiusi, sapeva di essere osservato, e tentava, senza riuscirci, di sorridere. Il suo pallore era mortale, e l’uomo che dopo tanto tempo poteva tornare a guardare il soffitto, come per timore di risvegliare gli oscuri fantasmi della sofferenza, evitava il dialogo, e si limitava a spostare gli occhi dal volto del suo compagno alla finestra dalle tende tirate.

Quella giornata fu spaventosamente lunga. Non poteva levarsi dal letto, e ciò gli impediva di posare la sua mano sulla fronte del vecchio, anche solo per tentare di rubargli parte della sua sofferenza. L’avrebbe fatto; avrebbe vinto, quel giorno, la sua ritrosia del contatto con le persone. Non l’avrebbe fatto per gratitudine; lui non credeva che bisognasse fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi. No: lui l’avrebbe fatto semplicemente perché era giusto farlo.

Capì che avrebbe potuto avvicinarsi a lui soltanto con la voce:

«Vuole che parli io, per lei, quest’oggi?»

Il vecchio fece cenno di no con la testa. Poi cambiò idea, e mostrò di desiderarlo.

«Io non sono così bravo, e poi non sono nemmeno in condizioni di avvicinarmi alla finestra… sa; non mi hanno ancora tolto il catetere, e mi hanno infilato quest’ago per riempirmi di ricostituenti. Comunque domani potrò. Lo sa che dopodomani uscirò? Ma voglio dirle che me ne andrò per tornare a trovarla… mi sente?»

Il vecchio fece cenno di sì.

  

Settimo giorno

 

Giunse così il giorno delle dimissioni. Era mattino presto, ma l’uomo che rimase sdraiato a pancia in giù per ben quindici giorni, era pronto ad alzarsi, avviarsi verso il letto del suo amico, stringergli la mano e guardare oltre la finestra dei sogni. Poi avrebbe raccolto i propri effetti personali, e l’infermiera gli avrebbe detto di recarsi  all’accettazione per ritirare i documenti di ricovero. Il suo letto sarebbe stato occupato da un’appendicite con rischio di peritonite.

Si mise a sedere, si voltò, e lo sgomento di qualche giorno prima lo assalì ancora: il letto del suo amico era nuovamente vuoto, rifatto con lenzuola pulite, e il suo comodino completamente sgombro. Forse rabbia, sicuramente frustrazione… del resto, come identificare quel senso di abbandono che lo pervase la seconda volta, e che lo spinse a gridare a gran voce addirittura il nome dell’infermiera?

«Eccomi.» La ragazza non lo sgridò, come aveva fatto la volta precedente.

«Cos’è successo stavolta? Gli avete cambiato corsia?»

«Mi dispiace, sa? Sono frastornata…»

«Dov’è? Lo voglio salutare, prima di andarmene. Voglio poterlo rivedere fuori di qui!»

«Se n’è andato. È morto stanotte, verso le tre. Non c’è stato niente da fare. Come sapeva anche lei, era incurabile…»

Un acuto groppo alla gola. Che rispondere alla ragazza che intanto si chinava sul letto per aiutarlo ad alzarsi?

«Mi ha salvato la vita. La prego, infermiera, mi accompagni alla finestra. Mi lasci guardare il suo mondo, quello che stava per diventare il mio…»

La giovane donna lo sorresse, guardandolo con aria interrogativa. L’uomo si drizzò, e una lieve vertigine lo fece barcollare un poco.

«Mi tira la tenda, per cortesia? Voglio guardare la fontana, e il mare in lontananza.»

«Fontana? – fece l’infermiera mentre, con uno strattone, scostava la tenda – Quale mare…?»

Un muro di mattoni rossi come il sangue, a pochi metri dai doppi vetri, barricarono in un attimo il cuore di quell’uomo, mentre, con voce tremante, rispondeva alla ragazza:

«Ma allora… si era inventato tutto, solo per tenermi compagnia, e farmi passare questo tempo orribile…»

«Cosa si era inventato?»

«Le cose meravigliose che accadevano nel parco qui fuori, i bambini, il sole, la banda… si era inventato tutto… per darmi forza e fiducia…»

La voce gli si ruppe in gola, e una grossa lacrima si insinuò tra le pieghe delle sue profonde rughe, scorrendo giù, fino alle pantofole. Con un tonfo che risuonò come un’eco per diversi secondi.

«Signore, non faccia così, venga: si sieda, e mi ascolti bene – gli disse dolcemente l’infermiera, porgendogli un fazzoletto – il suo amico non può averle raccontato nulla di così dettagliato; forse anche lei si è immaginato un bel po’ di cose, non crede?

Addirittura, lui non avrebbe potuto nemmeno vedere il muro, perché… quell’uomo, sa… era cieco».

 

Tiziana Stanzani © 2002 – Racconto vincitore 1° premio al concorso Angela Starace 2002

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