La cicciona altruista

Chiesero al Maestro di cosa si cibasse il primo uomo:

«Mangiava il fuoco e beveva la luce»

Zoroastro, Trad. dall’Avesta

 

Prima di iniziare questa storia vorrei contemplare un precetto filosofico che parte da una premessa semplicissima: fermo restando che ciascuno di noi fa del proprio meglio per non stare peggio, un essere umano può fare solo tre cose: scappare, stare a guardare, oppure impegnarsi; la Pinetta, da quando era al mondo e cioè da almeno cinquant’anni, era convinta che la seconda ipotesi fosse il suo caso. Il resto del mondo rimaneva invece convinto, a suo riguardo, della terza.

La Pinetta era una donna il cui aspetto ricordava un grosso armadio a due ante che racchiudeva i tesori più impensati. Ella, come vedremo, non riusciva a pensare a sé stessa: prima venivano gli altri. Chiunque altro, a suo parere, era senz’altro più importante di lei.

Ciascuno, secondo la sua propria tendenza naturale e secondo la Pinetta, cerca quindi di accaparrarsi il meglio dalla vita.

«Persino i cosiddetti Santi – ella sosteneva con una punta di cinismo, ma senza mai volerli offendere veramente – sono intrisi, fino al midollo e a loro insaputa, di orgoglio; anzi, forse la loro serpe è anche più subdola di quella che altri peccatori serbano in petto, perchè i Santi, pur di conquistarsi un nome sul calendario, ingrassano il loro egoismo almeno quanto il mio rimpinza il mio ventre!»

La Pinetta, che in gioventù aveva studiato, metteva continuamente sotto accusa non solo la religione, ma anche la scienza e l’arte perchè, sosteneva, tutte e tre tentano di imprigionare, la prima negli schemi del dogma, la seconda in quelli della ragione e la terza in quelli della fantasia, l’essenza della verità che non può essere soffocata. Così, tra una pizza e una teglia di lasagne, la Pinetta intratteneva spesso degli ospiti a casa sua, alla sera, e qualche volta queste cene finivano col diventare delle vere e proprie riunioni filosofiche; tutti la ascoltavano attentamente: qualcuno asseriva, altri dissentivano, ma tutti erano attratti dalle sue parole che lasciavano trasparire sempre una profonda saggezza, un’intelligenza acuta e una genuina bontà. Di solito verso il dolce, la Pinetta concludeva con trasporto che, se all’astronomia sfugge il vero segreto del cielo, alla geografia sfugge quello della terra e alla cronologia quello del tempo, ovviamente non si salva la storia, soprattutto quella parte di essa che ambisce a comprendere il mistero della follia umana. Giunti al caffè, la Pinetta sdrammatizzava tutto, definendosi ‘una cicciona atea’, la diretta responsabile della scelleratezza umana e un esempio ignobile di iniquità, e amava scherzare sul suo peso, sulle sue forme e sulla sua stessa ipocrisia. Per lo meno, per ciò che poteva concernere la sua taglia, questo era quello che ella voleva far credere agli altri: preferiva dileggiarsi da sè piuttosto che altri la canzonassero senza il suo benestare.

Preferiva non credere in Dio e prodigarsi come volontaria presso gli ospedali, come bambinaia gratuita nelle case delle famiglie povere, come accompagnatrice di giovani invalidi e come sguattera di vecchi inabili, piuttosto che lamentarsi in continuazione delle ingiustizie che affliggono l’umanità.

Molto spesso passava pure intere serate da sola, chiusa fra le pareti del proprio angusto appartamento a piangere sottovoce, sommersa dai suoi novanta chili e, a chi la udiva, raccontava il giorno dopo che era stata poco bene di stomaco.

In fondo non mentiva: la Pinetta mangiava veramente troppo e alcune volte il suo tubo digerente finiva con lo scioperare e le rinfacciava di essere una golosaccia ingorda e che c’erano al mondo tanti bambini che nel frattempo stavano morendo di fame.

Piangeva perchè si sentiva grassa e inutile.

La Pinetta poteva permettersi di non lavorare perchè aveva ereditato una grossa somma di denaro da un antico amante, forse l’unico amore della sua vita. Allo stesso modo, poteva concedersi di donare ingenti somme di quattrini ai bisognosi; il suo cuore era un contenitore anche più grande del suo stomaco: fu infatti vista, una notte di Natale, distribuire agli accattoni che vivevano nella stazione ferroviaria, alcune coperte pesanti e, in un’altra occasione, distribuire sberle a un protettore di prostitute che si era permesso di picchiare una sua pupilla. Sì, perchè la stazza della Pinetta era considerevole e alla fine tutti finivano col rispettarla.

Visto che ne aveva tanto, si offriva anche come donatrice di sangue addirittura una volta al mese, specialmente a favore degli ammalati di AIDS.

Una sera però, nonostante donasse tutto quel sangue e tutte quelle buone parole, accadde che alla Pinetta sembrò di scoppiare, perchè la sua pressione arteriosa rimaneva comunque e costantemente sopra il livello di guardia. Sentiva la sirena dell’ambulanza che si avvicinava ma la udiva sempre più lontana; pensava, mentre piombava con tutto il suo impareggiabile peso sul selciato, che i soccorsi stessero tardando troppo e che forse non ce l’avrebbero fatta a salvarle la vita; ma alla Pinetta non importava più e smise di preoccuparsene. Si sentiva scivolare via, finalmente leggera, leggera come non era mai stata in tutta la sua vita. Non si rendeva conto che si trovava invece su quell’ambulanza e che una maschera di plastica trasparente le era stata applicata sul viso, coprendo le sue minuscole narici. Si capacitava sempre più del fatto, invece, che stava morendo, perchè uno strano individuo si sedette alla sinistra del suo capezzale. Quest’uomo era pallido ed era vestito di bianco.

La Pinetta pensò, in un primo momento, che probabilmente egli fosse un infermiere.

Poi si corresse; lo sbirciò di nuovo: un bravo infermiere non fissa i pazienti con quella freddezza e tanto meno con un tale sorriso sarcastico sulle labbra.

Chiuse gli occhi per riposare un poco. Si sentiva bene, ora.

Quando li riaprì, pochi minuti dopo, quell’uomo stava ancora là, seduto al suo posto, con lo stesso piglio glaciale; la Pinetta volse lentamente lo sguardo a destra e vide un secondo individuo, seduto su quell’altra sedia metallica: questo vestiva di nero e lei notò, nel fondo dei suoi lucidi occhi scuri, ardere una fiamma d’amore infinito. Che costui fosse invece un prete, fu un pensiero che non la sfiorò neppure. Aveva lasciato detto che non ne avrebbe voluti, intorno.

L’uomo di sinistra, infine, decise di intavolare una strana conversazione con quello di destra:

«Lasciala a me: questa donna non ha mai creduto nel tuo Dio neppure per un momento. Neanche per un attimo le è venuto il dubbio che Egli esista.»

«È vero, ma ella ha amato immensamente; come puoi pensare che sia di tua proprietà?»

«Lo è: non è mai andata in chiesa una volta nella vita e mai il suo cuore ha pregato per un solo istante.»

«Sai bene che non ha neppure mai bestemmiato. Non ha mai maledetto nessuno, neanche te.»

«E tu sai che non ha neanche mai adorato. Non ha mai benedetto nessuno, tanto meno voialtri.»

I due litiganti proseguirono a contendersi la Pinetta – come fosse stata proprietà privata di qualcuno – ancora per molte ore e lei, nel suo delirio, si immaginò di essere nella gabbia degli imputati al suo stesso processo e che essi fossero gli avvocati della difesa e dell’accusa. Infine le venne chiesto dall’angelo del bene di seguirlo in Paradiso, perchè i Signori della Corte e il grande Giudice in persona pareva avessero deciso positivamente:

«Com’è il Paradiso?» – domandò debolmente la Pinetta, volgendosi a destra.

«È un luogo di pace, di amore e di bellezza, e ti spetta, perchè il tuo cuore lo è altrettanto.» – rispose l’angelo del bene.

«Non ci sono sofferenza, malattia, povertà, vecchiaia e corruzione?» – si accertò, con un filo di voce, la Pinetta.

«No.» – rispose, lapidario, l’angelo del bene.

«E allora cosa ci vengo a fare? Mi annoierei terribilmente, non credi?»

Poi ella si voltò verso l’angelo di sinistra e quello subito avvicinò le sue labbra sottili all’orecchio della moribonda, tentandola con queste parole:

«Vieni con me: l’Inferno è invece zeppo di anime tormentate, è il covo dei ladri, dei drogati, delle donnacce e di tutti i disperati del mondo…»

La Pinetta, udendo quelle parole, si illuminò in volto; sorrise all’angelo del male e decise di seguirlo all’Inferno: che ci andava a fare, in Paradiso, se gli altri non erano più importanti di lei?

La Pinetta si svegliò nella sua camera d’ospedale, quella mattina, ancora impastata dal malessere e dai granelli dei sogni. Percepì una quantità di tubicini entrare ed uscire dal suo corpo e la maschera per l’ossigeno premere sul suo viso. Udì poi alcune parole affettuose e, quando aprì finalmente gli occhi, ella vide che era circondata da moltissime persone. Alcune di loro erano parecchio sollevate, altri amici ancora un po’ in apprensione, ma i medici si mostravano invece fiduciosi.

Una miriade di bambini la sommerse di fiori, abbracciandola e baciandola, e alcuni piangevano ancora per lo spavento preso. La Pinetta non pensava davvero di avere tutti quegli amici. Da quella mattina non suscitò mai più polemiche e non sollevò più vespai metafisici di alcun genere. Da quella mattina, il suo cuore ormai guarito non le diede più problemi anche perchè la Pinetta non sentì mai più il bisogno di mangiare in continuazione.

Quella mattina riuscì a scorgere due uomini, sulla porta della sua gremita camera d’ospedale, i quali, uscendo, si stringevano finalmente la mano; parevano due pedine opposte degli scacchi, e la Pinetta comprese che per quella volta le era andata bene, ed era stata esaudita: l’avevano lasciata tornare all’Inferno.

  

Tiziana Stanzani 2005 ©


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