Identità culturale e senso della morte attraverso gli autori antichi

La morte trova nella letteratura ampio spazio di indagine e di rivelazione, poiché la parola letteraria è fantasia, mistero, angoscia, disperazione ma anche rivelazione e avvicinamento alla verità.
Spesso la letteratura si è servita della morte, tema col quale dialogare.

La morte nella letteratura è anche viaggio,  incontro, scoperta.

Si pensi al viaggio nel regno dei morti nel mito di Enea: il mito costituisce il substrato della conoscenza, l’aspetto primitivo e poetico della riflessione filosofica

Egli dunque va alla ricerca del padre e lo ritrova. La morte è dunque rivelazione di una nuova vita. La nascita e la morte costituiscono le traiettorie il cui filo unisce i due estremi. Le Parche, nel mito greco, erano tre ed ognuna di esse reggeva un filo: quello della nascita, della vita e infine della morte. La vita è nella morte e la morte è nella vita.

Grazie al mito la morte si fa rinascita, grazie alla religiosità la morte non è la fine di tutto, è l’inizio di un nuovo viaggio. La morte nella letteratura si incontra con Omero ma anche con la Bibbia. Si incontra col mito sul piano di una identità laica e si incontra con la fede sul piano di una identità cristiana.

Tuttavia dalla notte dei tempi nelle coscienze si agita non senza inquietudine l’eterno conflitto tra vita, tempo, morte.

 

Abbiamo perduto l’infanzia, poi la puerizia, poi l’adolescenza, tutto il tempo passato fino a oggi è perduto: questo stesso giorno presente noi lo dividiamo con la morte. Non l’ultima goccia vuota la clessidra, ma tutte quelle che sono prima trascorse: così l’ultima nostra ora non fa la morte, ma la compie. Allora noi arriviamo al termine, ma è un pezzo che siamo in cammino.(Seneca, Ad Lucilium epist. XXIV)

 

Si supera la morte con una vita esemplare che le generazioni future ricorderanno, si sfugge alla vecchiaia scomparendo nel fiore degli anni, all’acme del proprio vigore. “Muore giovane chi è caro agli dei” scriveva Menandro.

 

 

 

 

 

La morte: destino comune dell’ umanità

“Grave est”  “Sed humanum est”

Sembra uno slogan ma è questa la sintesi dell’atteggiamento del pensiero antico di fronte al tema della morte. Possiamo anche ritenere che tale concetto anticipi in qualche modo la sensibilità cristiana, ma sia l’uno che l’altra sono l’approdo di un lungo percorso culturale dalle svariate connotazioni antropologiche che ha tentato di dare risposte all’interrogativo forse più inquietante dell’umanità.

 

Tale è l’obiezione infatti nella Consolatio ad Marciam (17,1) che il filosofo Seneca, in risposta, rivolge a Marcia addolorata dall’irrimediabile perdita del giovane figlio Metilio.

 

Chi nega infatti che la morte sia una cosa dura da sopportare? Ma è umano.

 

Vale a dire che la durezza della perdita non può non essere compresa nella generale durezza della nostra vita, che deve esserci nota. La tendenza ad attutire la sofferenza vorrebbe farci ritenere straordinario, non umano, tutto ciò che ci colpisce così duramente. La vera cura, secondo Seneca, consiste nel capire, nel non chiudere gli occhi di fronte alla realtà della condizione umana.

 

Lo stesso tema è trattato nella Consolatio ad Polybium (18, 9), indirizzata a Polibio, liberto di Claudio, in occasione della morte del fratello; gli argomenti della consolazione sono gli stessi: l’ inutilità del compianto, la non sofferenza dei morti, il valore del ricordo, l’universale necessità della morte.

 

La morte è il non essere, ed io già so cosa significhi il non essere. Dopo di me sarà ciò che fu prima di me.

Il nostro errore sta nel pensare che la morte venga dopo, mentre essa, come ci ha preceduti, così ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte E anche finire di vivere ha lo stesso effetto: non essere. (Ad Lucilium epist. mor. 54)

 

In una lettera inviata all’amico Marullo per la morte del suo bambino, morte che egli non ha sopportato virilmente,  Seneca  si esprime con fermezza nell’esortare l’amico a mostrarsi resistente ai mali e a non cedere al dolore. Gli argomenti usati sono tratti dalla filosofia stoica:

 

“ Credimi, la sorte può toglierci la presenza fisica di quelli che amiamo,  ma gran parte di essi rimane in noi…….

Se siamo coscienti che presto seguiremo quelli che abbiamo perduto, dobbiamo essere più sereni”

Infatti siamo soggetti tutti allo stesso destino.(ad Luc. Ep. 99, 1-6)

 

In altri passi il filosofo mostra di voler superare il grande tema del “non essere” con la prospettiva di una vita oltre la vita.

 

Dopo la morte ci attende un’altra nascita, e il giorno che noi temiamo come l’ultimo della nostra vita, è, in effetti, il primo dell’eternità

 

Attraverso il breve decorso di questa vita mortale, ci si prepara a quell’altra migliore e più lunga. Infatti, come il grembo materno ci tiene nove mesi non per sé, ma per prepararci a quel luogo in cui poi veniamo alla luce già in grado di respirare e di resistere all’aria libera, così, attraverso il periodo che va dall’infanzia alla vecchiaia, diventiamo maturi per un altro parto. Ci attende un’altra nascita, un altro ordine di cose…..rivolgi il pensiero a quell’ora decisiva: non è l’ultima per l’anima, ma per il corpo. (Ad Lucilium 102, 21-26)

 

Il senso della morte e la precarietà della vita

Il senso della morte, allargato alla condizione umana, è un pensiero fisso del poeta ellenistico Leonida di Taranto..

Non bisogna legarsi alla vita , come la vite si attacca al palo, ma migrare all’altro mondo quando la vecchiaia è venuta. Il tempo passato prima della nascita e quello che passerà dopo la morte è infinito, mentre la vita dell’uomo, breve e spiacevole, peggiore della morte, dura un istante, meno di un istante.

La comune realtà della morte, per il Poeta,  viene come anticipata dal decadimento che già corrode ogni istante della vita (epigramma A.P.VII 472) che risulta essere un monito per tutti gli uomini allorché invita a guardare alla finitezza  e alla precarietà dell’esperienza esistenziale in confronto dell’ eternità.

 

Infinito fu il tempo, uomo, prima/ che tu venissi alla luce, e infinito/ sarà quello dell’Ade. E quale parte/ di vita qui ti spetta, se non quanto/ un punto, o, se c’è qualcosa più piccola/ d’un punto? Così breve la tua vita/ e chiusa, e poi non solo non è lieta/ ma assai più triste dell’odiosa morte./ Con una simile struttura d’ossa/ tenti di sollevarti tra le nubi/ nell’aria! Tu vedi, uomo, come tutto / è vano: all’estremo del filo, già/ c’è un verme sulla trama non tessuta/ della spola. Il tuo scheletro è più tetro/ di quello d’un ragno. Ma tu, che giorno/ dopo giorno cerchi in te stesso, vivi/ con lievi pensieri, e ricorda solo/ di che paglia sei fatto.

 

Il dolore delle morti immature  

 Abbiamo a disposizione nelle letterature classiche molti esempi di poesia sepolcrale in cui si compiangono soprattutto la morti immature. Non mancano a questo proposito in Marziale, originale poeta latino, squarci di poesia dolente, come quando egli sembra intristirsi davvero per la morte della piccola Erotion, una servetta nata in casa sua e morta improvvisamente alla tenera età di sei anni. Gli epigrammi a lei dedicati trasudano di vero dolore.

 

A t,e Frontone, (suo) padre, a te, Flacilla, (sua) madre questa bimba, boccuccia e delizia mia io affido perché la piccola Erotion non tema le nere ombre e il ceffo mostruoso del tartareo cane. Stava per compiere il sesto inverno brumoso, se altrettanti giorni fosse vissuta ancora…..Le sue molli ossa la dura zolla non copra, né a lei, o terra, tu sia grave: non lo fu essa a te. (Ep.34)

 

Altri epigrammi composti in occasione di morti giovani sono il L.I,101 composto per il suo giovane segretario Demetrio, morto a soli diciannove anni, e quello composto per la morte di Canace, una bimba scomparsa a sette anni, dopo che un male incurabile le aveva progressivamente corroso il viso (XI,91)

 

La libido mortis  

Accelerare la fine della vita, anzi prevenire in un certo senso il destino, è un brama che talvolta assale gli esseri umani, anche molto giovani. Varie sono le interpretazioni di questo gesto estremo. Nella sensibilità moderna appare come un gesto di debolezza, non così appaiono le morti di alcuni personaggi rappresentati dagli antichi autori.

In Lucano il cesariano Vulteio, resosi conto dell’agguato in cui erano caduti ad opera dei pompeiani

incita, in un gesto di estrema superbia e di sfida, i suoi compagni alla morte.

 

O giovani prendete le decisioni estrema: nessuno dispone di una vita breve se in essa ha il tempo di scegliersi la morte, né inferiore è la gloria dell’olocausto supremo, o giovani, se affronterete con decisione il fato che incombe su di voi: dal momento che tutti gli uomini ignorano quel che li attende, è identico motivo di lode per l’animo sia perdere gli anni di vita sperati sia affrettare la fine nel momento estremo, purché sia la nostra iniziativa ad accelerare il destino. (Lucano Pharsalia,IV, 481-484)

 

Altro esempio di suicidio come scelta estrema a seguito del tradimento d’amore, è quello della virgiliana  Didone.

 

Allora Didone, tremante, esasperata
per il suo scellerato disegno, volgendo
attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse
di livide macchie e pallida della prossima morte,
irrompe nelle stanze interne della casa
e sale furibonda l’alto rogo, sguaina
la spada…(passim)
premé la bocca sul letto.
“Moriamo senza vendetta – riprese. – Ma moriamo.
(Virgilio, Eneide IV, 642-705)

 

Commovente in Sofocle il suicidio di Aiace Telamonio, che, tornato in sé dopo l’orrenda strage, compiuta per errore, di un gregge di pecore, “lava” l’onta della vergogna di fronte all’opinione pubblica con la morte, trafiggendosi con la spada donatagli da Ettore. Umiliato dalla sua stessa azione, vittima del riso dei nemici è attraversato da un impetuoso desiderio di morte nella sua consapevole disperazione (Sofocle Aiace vv. 470 e segg.)

 

Ora che devo fare?…

Volere una vita troppo lunga è vergogna quando non c’è nessuna speranza di cambiare la sciagura. Che piacere ha in sé il giorno che si aggiunge a un altro giorno, che avvicina e ritarda la morte? Non stimo niente un uomo che si accende di vane speranze. Chi è nato nobile deve vivere bene o morire bene; questo è tutto.

Ma non serve continuare a lamentarsi invano; è il momento di agire, e presto.

O morte, morte, vieni, guardami!

 

 

 

 

 

Morti illustri 

 La fermezza di fronte alla morte mostrata in momenti di particolare gravità da uomini illustri o da semplici cittadini ha creato pagine bellissime di eroiche virtù, che rifulgeranno anche negli eroi  delle epoche successive e fino ai nostri giorni. Lo storico Tacito ce ne parla negli Annales.

 

Nell’anno 65 d.C. nelle file dell’opposizione al principato si formò una vasta congiura, alla quale parteciparono, oltre a membri dell’aristocrazia, anche il prefetto dei pretoriani Fenio Rufo e molti ufficiali. La congiura fu scoperta grazie alla delazione di un liberto. Ne seguì una sanguinosa repressione, in cui congiurati effettivi o presunti, oppure uomini invisi a Nerone, furono uccisi o costretti a darsi la morte. Tra i nomi più illustri Seneca, il poeta Lucano, Petronio Arbitro, Trasea Peto, e tanti altri. Il principato di Nerone  finiva così in un bagno di sangue, che decimò gravemente l’aristocrazia senatoria.

 

Morte di Seneca (Annales, XV, 60-64)

La morte di Seneca è la morte bella e serena di un eroe stoico, come prescrivevano i dettami che il filosofo aveva a lungo predicati. Egli conforta gli amici piangenti e li richiama alla fermezza stoica contro le avversità.

 

Morte  di Petronio (Ann. XVI, 19)

Petronio, uomo raffinato, arbiter elegantiarum,  accusato di aver aderito alla congiura pisoniana, fa  del proprio suicidio il degno epilogo di una vita raffinata. Non volle intrattenersi in discorsi elevati, o in gesti eclatanti che potessero in qualche modo creargli la lode del fermo coraggio. Continuò anche nell’ultimo giorno a vivere secondo il suo habitus, sedette a banchetto e si abbandonò al sonno perché la morte, per quanto obbligata, avesse un’ apparenza di casualità. Ebbe solo il gusto di elencare le infamie del Principe e di inviargliele, spezzando poi l’anello col sigillo, perché non servisse a trarre altri alla rovina.

 

Morte di Epicari (Ann. XV, 57)

I primi congiurati dapprima negano, poi cadono in contraddizione. Nerone allora fa sottoporre a tortura la liberta Epicari, che, arrestata, era riuscita a sviare i sospetti. Sottoposta in carcere a ogni genere di tortura, era riuscita a non cedere. Il giorno dopo, ormai sfinita, infilò il collo nel laccio da lei stessa preparato, dando un esempio fulgido, in quanto donna, di forza d’animo, a difesa di uomini estranei a lei sconosciuti, mentre uomini liberi, senatori e cavalieri romani, non esitavano a  tradire quanto di più caro avevano, pur di aver salva la vita.

 

 

La commentatio mortis nella cena di Trimalchione 

La stoltezza umana arriva perfino ad ipotizzare la persistenza di differenze sociali varcata la soglia della morte e ci sono persone che si affannano affinché tale stato sia ben visibile. Se ne preoccupa Trimalcione, il protagonista del romanzo petroniano, il quale ogni sera organizza per sé dei macabri funerali costringendo tutti i presenti a piangerlo. Durante la famosa Cena, Trimalcione si finge morto e fa celebrare il suo funerale per controllarne da vivo lo splendore: si fa portare i paramenti funerari, l’ampolla dell’unguento, del vino. Ordina poi di portare il lenzuolo mortuario e la toga, apre l’ampolla contenente l’unguento e unge i commensali. In seguito fa entrare nella sala i suonatori di corno e uno schiavo suona così forte da svegliare il vicinato. Agli squilli dei corni accorrono i vigili del fuoco, che pensano ad un incendio, 

 

 

Sopravvivenza

Una doppia “religione” tende a superare l’angoscia provocata dal pensiero della morte: una forma per così dire laica e una propriamente religiosa.

Gli Autori antichi ammettevano che l’unica possibilità di sopravvivenza consistesse nel ricordo di una vita esemplare.

 

Certo non potrà avere nessun timore quegli per cui la morte è dolcemente attesa; ma neppure temerà chi pensa che l’anima viva solo finché è trattenuta dal vincolo corporeo e che, sciolta da esso, subito si disperda, se agisce in modo da essere utile anche dopo la morte. Per quanto egli venga sottratto alla vita dei suoi, tuttavia “torna alla memoria la grande virtù dell’uomo e la grande nobiltà della sua gente” (Virg. Eneide, IV, 3-4). Pensa quanto ci giovino i buoni esempi; comprenderai che il ricordo degli uomini grandi non ci è meno utile della loro viva presenza. (Seneca, Ad Lucilium epist. mor. 102).

 

Un esempio fulgido di virtù militari e civili degno di sopravvivere a se stesso nella memoria dei posteri viene delineato nell’”Agricola” da Tacito.

 

Se vi è un luogo per le anime dei giusti, e se, come i filosofi vogliono, le grandi anime non si spengono col corpo, riposa in pace; e richiama noi, tuoi cari, da sterili rimpianti e lamenti femminei alla contemplazione delle tue virtù, cui non si addicono né lacrime, né gemiti. Più vale a onorarti la stima, una lode senza fine e, se ne siamo capaci, l’imitazione di te: ecco il vero onore, la vera prova d’amore….venerino la memoria del padre e del marito in modo da rivivere sempre nel cuore le sue gesta e le sue parole, da chiudere nell’animo l’immagine e i tratti del suo spirito più che del corpo….immortale è l’immagine spirituale (forma mentis) che tu puoi serbare e riprodurre con la tua personale condotta di vita. Tutto ciò che in Agricola abbiamo amato, abbiamo ammirato rimarrà fermo nell’animo degli uomini per sempre. (Tacito, Agricola, 46) 

 

La paura della morte

 Tuttavia ammettendo pure la sopravvivenza nel ricordo o la rinascita nell’al di là secondo il principio dell’immortalità dell’anima, non si può nascondere che in molti la morte in quanto tale  fa paura, al punto che alcuni arrivano a darsi la morte per paura della morte.

Ci soccorre a questo punto Epicureo nella lettera a Meneceo

 

 

1      […] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere più. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il più terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo più. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono più. Ma i più, nei confronti della morte, ora la fuggono come il più grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i più abbondanti, ma i migliori, così del tempo non il più durevole, ma il più dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice:

                                                                              “bello non esser nato,

                               ma, nato, passare al più  presto le soglie dell’Ade”.

 

Ancora, si ricordi, che il futuro non è né nostro, né interamente non nostro: onde non abbiamo ad attendercelo sicuramente come se debba venire, e non disperarne come se sicuramente non possa avvenire. (Epistola a Meneceo, 124-127)

Alla tesi epicurea si contrappone quella stoica che insegna la meditatio mortis , la sola cosa che invece libera dalla paura della morte, insegna a morire (e a vivere), dona piena sicurezza di fronte a un fatto che è effetto di una legge naturale.

 

Noi, assai dissennati, crediamo che essa [la morte], sia uno scoglio, mentre è un porto, delle volte da cercare, ma mai da rifuggire, nel quale se qualcuno è spinto nei primi anni [di vita], non deve lamentarsi più di chi ha navigato velocemente.(Seneca, Lettere a Lucilio, 70)

 

La morte non deve fare paura, secondo Seneca, perchè non è un momento improvviso ma un processo naturale e graduale: si muore un po’ ogni giorno; l’importante è saper impiegare bene il tempo che ci è stato dato. La vita non è dunque né lunga né breve, ma giusta, e il tempo è l’unica cosa che veramente ci appartiene, perchè possiamo scegliere come impiegarlo.

 

Si muore un po’ ogni giorno….la vita non è breve se la sai usare (Sen. De brevitate vitae)

 

Per concludere, prendendo coscienza della ineluttabilità della morte, facciamo nostro il motivo del “memento mori” (“ricordati che devi morire”), convinti che la vita vada amata giorno per giorno con impegno e con gioia, con spirito di sacrificio ed altrettanto entusiasmo affinché nessun attimo venga sciupato, ma ogni alba sia per tutti l’eterno meraviglioso miracolo, prima che sorella Morte, come amava definirla San Francesco, bussi al nostro capezzale.

Infatti solo con tale consapevolezza del suo “modo di essere”, della sua finitezza, l’uomo può assumere la sua presenza nel mondo come esperienza “religiosa”  capace di orientare la sua vita e la sua relazione con gli altri esseri umani in una dimensione per così dire universale.

 

 

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