Entrata Bel Nero di Ranueri Teti, Ed. Kolibris.2011

 ENTRATA NEL NERO, di Ranieri Teti,  Kolibris, 2011

 a cura di Ninnj Di Stefano Busà

 Così sembra entrare di prepotenza nel buio attraverso gli occhi, calarsi in esso coi sensi, lacerarne il velo che separa la vita e la morte, accasciarsi vicino alle forme meno proditorie, ma più ingenue, più fragili del nostro repertorio esistenziale. Una discesa, all’apparenza, negli inferi  di un persistente astratto, che nel caso di Ranieri va considerato un excursus, forse un provvidenziale scavo nella “parola” non detta, non pronunciata, in quella parola trattenuta tra la penna e il foglio all’interno di quel biancore indistinto, di quella significativa gnosi che non riesce ad estrapolarsi, a divenire sostanza e poi concettualità, verbo, immagine e poi sfumatura, suono, affabulazione, e dunque, predilige il luogo oscuro della memoria, l’angolino seminascosto del pensiero che non emette suoni o parole. Ed è così che suppongo interpreti il concetto di scrittura anche Ranieri Teti che, in questa sua indagine, dà l’esatta misura dell’oscurità, la condizione di esilio, di estraneità e incapacità di portarsi alla luce, di formulare concetti e luoghi in cui svolgersi e ampliarsi la parola all’interno di quella visione dell’oltre o della poesia che resta oscura ai più, emarginata o assente dallo scrittoio di molti poeti.

Il linguaggio qui appare criptico, oscuro enigmatico, dentro una fitta rete che lo ingloba, ma l’uso di cifre connotative, riesce ad evocare allusive espressioni nello scandaglio dell’io individuale.

Chi non capisce nulla di poesia può avere l’impressione di essere dinanzi ad un panorama linguistico del tutto ermetico, quasi al limite del non sense. Ma, invece, ci troviamo all’interno di un messaggio denso di significati profondi. .

Questa “Entrata nel nero” acuisce la vista, da cui si evince un senso di attesa, di perturbamento, l’ansia di congiungimento alla “parola” assente, al percorso inagibile, alla solitudine riempita di suoni che non contano…di fonemi mancanti.

Per Ranieri è questa mancanza di significazione, di illuminazione il fondamento del pathos: il buio dentro e fuori non esiste, perché esistono i colori, le vie di mezzo, le tinte sfocate, sfumate.

Il nero deve essere stato preceduto da un biancore iniziale o quanto meno da una suggestiva tonalità intermedia: “l’entrata nel nero dall’ultima riga mormorata” la definisce l’autore e, ancora: “ che bagna le mani/ e il silenzio del foglio/ delle dita sul foglio”. estrema ratio, esilarante ironia della scrittura che non sa individuare forme e colori?

E’ un libro che si presta a molti interrogativi, si coniuga alla storicizzazione di ognuno, che può riverberare  alla luce di una vigorosa e allusiva simbologia la parte meno illuminata del proprio nascondimento.

Ogni verso di questa raccolta si attesta come figurativo di un’elaborazione virtuale che biancheggia nel suo repertorio flagellato dalla tenebra, ma ogni riferimento a quel buio “mortale” è lungi dall’esservi partecipe, perché di morte non ha nulla, ha invece la speranza di una scrittura sobria e penetrativa che riesca a smuovere la forma e a riferirla all’esterno di essa: poesia, appunto, o estrazione di un riferimento ad essa connesso.

Una raccolta emblematica, a cominciare dal titolo che sintetizza il percorso umano e la destinazione finali dell’uomo. Il libro si snoda su tre direzioni: Risonanze dell’oscuro, La destinazione opaca, Dove siamo scritti, quasi ad indicare una mappa di orientamento, una cartina di tornasole in una indagine microscopica sulle reali condizioni dell’individuo, a fronte del suo disagio fisico e morale: “ecco  l’andare che ritorna nelle vene” E’ un discorso del divenire che si orienta in direzione del suo nascondimento, uno spartiacque umbratile, disertato dalle regole del gioco, quasi sterile e oscurato da “ciò che avviene intorno agli occhi”, quasi esilio dalla luce, da un’esperienza di luogo e di tempo indeterminabili e indeterminati.

Metamorfosi di una ricerca che, nell’incostanza dei suoi camminamenti, è storia di ognuno e di tutti, una memoria che ricerca e scava nei meandri della tenebra la sua fatale connotazione. “Tutto essendo altrove” “destinazione opaca”, nero di fumo e nebulosa perenni che umettano in modo discontinuo la realtà del quotidiano patire, l’intenzione del superamento.

Nel tragitto di tenebra e schianti si fa avanti una condizione irreversibile di caduta, inevitabilmente ci si impatta in errori, in discordanze che condizionano o affliggono. congiungono occhi e mente in una ricerca costante del sé medesimo, per l’inverno che ci sopravanza, per il buio che ci serra, per la fine che ci attende al varco.

La metamorfosi di questo perenne magma è, sì, “destinazione opaca” perturbamento senza scampo, ma con qualche spiraglio di luce che induca a metabolizzare le sofferenze, le assenze, che immancabilmente conducono a precludere ciò che si agita in sé.

Al di qua noi, al di là il buio, (sembra dire Ranieri Teti). Il mondo destinato al disfacimento, per raggiunti limiti di tolleranza, alla ragione dell’ per le tenebre, “tra ceneri e terra” come dichiara l’autore. Un libro che disorienta, una raccolta incentrata sullla condizione precaria degli umani, ma che pure ci riserva grandi sorprese, grandi altezze per connotazione linguistica, per concentrazioni lessicali che sono l’humus e la bellezza di questa raccolta, la quale si distingue per la conduzione di un linguaggio senza scorie e orpelli, tutto snodato attorno al nucleo centrale di un risicatissimo margine di  sentiero che porta in sè strettoie inquietanti, orli di precipizi e l’umiliazione di essere instabili, provvisori in un luogo risibile, in un tempo risibile, senza salvezza, perché sapere che infine la destinazione è “dove siamo scritti” non induce l’individuo a minore sofferenza? un labirintismo che non soltanto non conforta, ma inquieta, marcando ciò che avviene “oltre”. .Ma con “l’andare che ritorna nelle vene” persiste il sentimento dell’abbandono meno greve, meno cerebrale e più vicino all’universale che è in noi, con l’esigenza di essere un divenire possibile, un episodio di minore tenebra, una ragione ultima di superamento del baratro, che in fondo domina tutto il libro, ma non elude né inficia l’ansia del deserto, la sostanza vitale del silenzio in una disamina complessiva del dubbio, in un’ansia di congiungimento ulteriore, dentro un afflato lirico tra i più complessi, che ci porta ad una meditazione, ad un viaggio analitico dentro noi stessi, ad una revisione di quel che rimane dentro e fuori di noi.

 

 

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