Eleonora

La donna siede in un angolo della stanza spoglia. Gli esattori hanno lasciato solo due sedie di legno tarlate la cui impagliatura è divenuta fragile come cristallo ed un tavolaccio intarsiato da antichi maestri falegnami, ultimo baluardo di una ricchezza che era andata scomparendo come il tempo che fu.

Lì in quell’angolo buio, fiocamente illuminato dalla pallida luce di una candela mezza consumata, sta come un burattino vecchio e sgangherato di cui il fanciullo è sazio di baloccarsi. Il peso degli anni, il dolore, la sofferenza, i travagli del cuore, le crisi asmatiche che lentamente le avevano prosciugato la vita dal corpo, l’hanno resa ormai simile ad un vecchio albero spoglio, ritorto e nodoso di cui si rammenta ancora il ricordo dell’ombra ristoratrice durante la canicola estiva quando le fronde facevano a tenzone con i venti. Eppure in quegli occhi neri e grandi in cui in tanti si sono specchiati cercando ora Cosetta, ora Hedda Gabler, ora Cleopatra, ancora alberga la maestosità nevrotica ed alienata della sua giovinezza.

Quante maschere, quanti sogni spezzati ed infranti ha fatto rivivere sul quel palcoscenico! Ha vagato tra tutte quelle maschere cercando quella a lei più congeniale, in una inesausta ricerca di sé stessa, ma forse è stata proprio quest’ultima che non è mai riuscita ad indossare. Si osserva le mani. Sono così diafane e scheletriche che la luce fioca della candela pare quasi attraversarle.

 

Un accesso di tosse le sconquassa il petto fragile. Nel fazzoletto con cui si è coperta la bocca c’è un grumo di sangue che va a fare compagnia agli altri già rappresi sul tessuto candido. È la vita che spira via dalle sue vene. È la vita che ormai non c’è più. Ma forse essa ha smesso di vivere quando, adirata per l’ennesimo tradimento, per l’ennesima ingiuria che il suo cuore ha dovuto subire, ha affrontato quei suoi occhi grandi e magnetici, quello sguardo sfrontato da trionfatore e seppur con strazio indicibile ha avuto il coraggio di urlargli queste parole:. Era stata come un mero strumento d’arte che si prende e si accantona via quando ha smesso ormai di essere utile. Egli aveva attinto alla sua forza. La sua anima insieme al suo corpo erano state sacrificate sull’altare della poesia nel fuoco del di lui genio.

La sua memoria sorvola le asperità del tempo e torna indietro, alla primavera del 1904. I suoi spasmi bronchiali l’avevano torturata pazientemente e sapientemente tutto l’inverno. Il tepore della nuova stagione, assieme ai bagni di iodio che inalava in riva al mare le avevano intriso il corpo di nuova vita. La sua anima tragica ed innamorata le suggerì di partire per una visita non annunciata all’amato assorto negli enigmi dell’arte. Vi giunse sola. Come in fondo lo fu per tutta la vita. Un’anima sola in fuga da sé stessa per non specchiarsi nell’orrore che celava dentro. Come consuetudine prese alloggio nella camera degli ospiti, ma mentre adagiava il bagaglio sul letto, trovò sul comò di noce laccato ed intagliato dalle più abili maestranze fiorentine delle forcine ancora intrecciate di capelli biondi. Immagini di orgie estatiche si levarono ad infrangere il delicato cristallo della sua anima. Divampò l’ira nelle sue membra stanche. Fu una folgore di energia che le dardeggiò dal cuore fino alle propaggini più remote del suo corpo. Ogni ragione ed ogni logica si obliarono nel mare di tutti i tormenti patiti e come una tempesta la sua ira infuriò nell’aere reso incandescente. Cercò e trovò i fiammiferi e stava per dare fuoco alla casa se egli non fosse tornato in tempo dalla sua cavalcata per calmarla e condurla fuori da lì. Nella testa le echeggiano le sue grida mentre il custode la trattiene. Scalcia, strepita, si piega su stessa riversa a terra. I suoi occhi strabuzzano come quelli di un condannato a morte mentre anche l’ultima siringa ha terminato di iniettare il suo veleno mortale e il cuore ha un ultimo sussulto che sembra voler squarciare il petto. E poi alla fine quelle urla:.

Ma l’amaro disinganno, la cicuta che le avvelenò il cuore, fu quel libro a cui egli dedicò tanti anni, il Fuoco. L’amico comune Rolland l’aveva messa in guardia:. E quando il fatale romanzo celebrò la sua epifania comprese che più di tutto egli amava la propria opera e mai avrebbe sacrificato un bel libro a quell’amore in cui ella aveva troppo spesso recitato il duplice ruolo di amante ed amato per supplire all’assenza silenziosa di lui. Ella amava per entrambi. Fu così in uno di quegli slanci d’entusiasmo che la sola presenza di quell’uomo geniale le suscitava nel cuore, mentre le sue labbra forti e gentili le giuravano amore eterno, così ella lo incitò:. Soltanto pochi giorni prima il suo impresario le aveva suggerito ciò che era l’impossibile per la sua anima:. Fu perentorio. Ma ancor più netta e decisa giunse la sua risposta:.

L’amore l’ha spinta ad annientare dignità ed orgoglio, ad accettare tutte le umiliazioni che la sua durezza, la sua crudeltà e i suoi modi le avevano procurato.

Ora è di nuovo sola. Come quando i bambini della sua età la apostrofavano e inveivano contro di lei chiamandola figlia di commedianti, gente di terz’ordine, esseri spregevoli, attori. Come quando da fanciulla i genitori la costringevano a recitare in strada per elemosinare di che vivere. Fu così che apprese l’arte di genuflettersi con un rapido inchino del capo e di illanguidire gli occhi con seducente bellezza per stimolare le mani che avrebbero fatto cadere i centesimi in quelle di lei piccine ed innocenti.

Ed ancora i ricordi agrodolci della giovinezza perduta la assalgono: all’età di quattordici anni vestì i panni di Giulietta proprio in quella Verona che diede i natali alla giovane Capuleti. Avevano montato il loro scalcinato palcoscenico di legno, due tavole ed una torre di scena, ad un’estremità dell’Arena. Il padre aveva delimitato con una fune di corda mezza consumata un settore delle gradinate e mentre i pochi spettatori si assiepavano su quei parapetti in rovina, ella con un grosso cappello a falde larghe raccoglieva i pochi centesimi che facevano pagare per le recite pomeridiane. Dopo l’umiliazione però, mentre il sole cominciava a tramontare tingendo di rosso fuoco le ultime file delle gradinate, essa provò quell’ebbrezza che solo la recitazione era in grado farle vivere. Le parole uscivano dalla sua bocca con una strana facilità e con una naturalezza disarmante e le udiva accompagnate dal rombi continuo delle sue vene. E fu così immedesimandosi nel personaggio di Giulietta che il dio Dioniso, il dio del Teatro, la fece sua. Ella visse così i due opposti di cui si incarnava il figlio di Zeus e Semele, l’estasi del potere sugli altri e l’estasi della resa di sé. Una volta rivivendo questo vecchio e sgualcito ricordo con un critico teatrale disse: e le sembrò che l’aria fosse tutta pervasa dal profumo dei petali delle rose con cui allora coprì il corpo esanime di Romeo.

Un mazzo di gigli puri e candidi sono riversi sul tavolo, come la sua anima naufraga lungo le spiagge deserte della solitudine.

domanda a quella falce di luna calante che le sorride come una madre che culla il suo bambino per farlo addormentare dopo tanto piangere.

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Stringe i gigli tra le mani. Ne stritola la corolla e i petali macilenti rovinano a terra. È la desolazione del tempo che passa.

e grida ancora più forte verso quella luna, quello spicchio che tra le rughe sembra celare tutte le risposte.

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Un’ombra esce dall’oscurità. Un viso pallido di mezzaluna. L’occhio fiero ed austero. Il cipiglio forte.

. Un muto silenzio di parole abortite.

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È immobile. Le porge una mano. Il braccio teso. La parola muta su quelle labbra sottili un tempo così feconde. Gli occhi vitrei come lame di ghiaccio. Si lascia afferrare da quei polsi di pietra. La sua mano è fredda. Da vicino, illuminate dalla fioca luce della candela, si possono scorgere le sue pupille vitree, vitree come la morte.

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Si alza in piedi. Le gambe vacillano prive di forza. Si sostiene alle spalle di lui, salde come una quercia millenaria.

.

Spirò tra quelle braccia in cui tante volte si era smarrita, naufraga tra le onde della voluttuosità, riflettendo come uno specchio nei suoi occhi quelli di lui, che per anni erano stati fiaccole ardenti con cui bruciare l’incenso e la mirra della sua passione

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