Donna catrame (un assaggio)

DONNA CATRAME – estratto 1996/ 2012  

 

PRIMA PARTE

copyright riservato BOX DB012  – 1996/ 2012

 

Il tempo tiranno diede vita alla donna che con l’intento di essere diversa, fece voto di servire e riverire le tenebre.

Ophelia Rati il suo nome, aveva capelli rossi come il sangue, pelle di luna,

sguardo di ghiaccio; viveva in un castello di cristallo, senza un uomo accanto,

che potesse contemplarne la bellezza, guastata dalla sua condizione di perduta.

Dolcemente tra le sue rose nere, un dì trovò qualcosa che le avrebbe cambiato per

magia le abitudini e l’idea dell’amore che nel tempo aveva coltivato.

Fu un semplice ciondolo a forma di cuore, in vetro in cui vi era un liquido rosso,

che non tardò a riconoscere: sangue, rosso vermiglio a chi apparteneva?

Sotto una luna tenebrosa, la mente si perse in idee oscure prima che il sonno prendesse il sopravvento, al corpo di Ophelia sdraiata nuda tra lenzuola nere, tra le dita girava il ciondolo, poi Morfeo giunse con quel torpore a cui non potette desistere.

La fioca candela accesa disegnava un’ombra di uomo, ben distinta sul muro, quando ella

chiuse le palpebre.

Sul pavimento abbandonata stava una rosa recisa, vicino alle dita esangui il ciondolo a forma di cuore, pulsava di luce.

Alle spalle del letto uno specchio riproduceva nel buio e sprazzi

di fiamma il corpo nudo assopito.

La vita di Ophelia Rati da quelle ore sarebbe stata una donna diversa ma non

avrebbe taciuto davanti alla ragione, la consapevolezza del suo amore.

In un angolo della stanza un baule di legno antico, racchiudeva i suoi segreti,

era un baule di semplici assi intarsiati con figure spettrali balzati nel rame, pomi

d’ottone decoravano gli angoli del coperchio.

Il mattino seguente, decise di indossare quel ciondolo trovato tra le sue rose.

Si guardò allo specchio, focalizzando lo sguardo sul generoso seno, dove pendeva in una gabbia di filigrana d’argento quel cuore di vetro.

Uscì tra le sue rose, respirando a pieni polmoni il profumo della passione,

dilagava tra le spine di quei rovi, il pensiero di lasciarsi rapire, la sua anima come il

mare e su cui aleggiava la presenza di chi ancora non riusciva a mettere a fuoco; era forse chi mise quel sangue? Ma la visione andava dissolvendosi

nel buio dei petali vellutati delle rose, uniche testimoni di chi passò di lì e perse quel ciondolo…

 

(1996)

 

Sembrava meno nero il suo castello, gli occhi socchiusi nel vuoto, sembravano

attendere il ritorno di un amante che sul suo destriero rendesse la sua vita d’immortale, più

mortale, più umana e così ridarle la passione dell’amore.

Tutti i suoi sogni erano imprigionati nel baule dei segreti,

fiori di gelo di un passato di condanne, di abusi, di ferite,

un sepolcrale bagaglio, tra cui la colpa di aver ucciso l’amore, che da quel giorno la rese donna spettrale, strega del buio, agli occhi di tutti; avrebbe

indossato un sudario da quel giorno, senza più riprendersi dalla follia,

ed ora un ciondolo a forma di cuore con dentro del sangue, ridava colore alle sue labbra gelide, sconvolgendo le sue notti solitarie.

I suoi capelli rossi sparsi sulla sponda d’ebano, davano al volto un aspetto di purezza ritrovata e il sangue tornava a imporporare le sue guance,

Nella sua immobilità, prese a cercare con lo sguardo perso al soffitto, una parvenza di volto

tra le macchie, magari proprio il volto di chi nel ciondolo aveva messo il suo sangue, il volto di un uomo; almeno questo era il desiderio di Ophelia.

Respirò e sospirò a fondo una volta, poi una seconda, cercando di raccogliere

i pensieri in un guizzo d’ombra in fondo alla sua stanza sempre nel buio, quando vide ben distinta la sagoma di un uomo addossandosi al muro.

Stava per gridare, ma non lo fece, il ciondolo prese a pulsare di luce propria.

Poi una voce profonda e calda pronunciò il suo nome che la lanciò in un oblio

silenzioso, avvolgendola in lenzuola di raso.

Con gli occhi colmi di vita vide chi era colui che

dall’oscurità dove era rimasta immobile prese ad avanzare verso di lei.

Un volto scolpito, su un corpo di statua greca, nudo, forgiato nella grazia,

etereo pallore, capelli neri, occhi di un verde intenso.

Ophelia taceva, rimase in balia di quel corpo per tutta la notte.

– Hai trovato il mio cuore -, sussurrò l’uomo – Adesso ti appartengo

come tu appartieni a me! – un messaggio che lei raccolse in se come un dono.

– Qual’è il tuo nome?- chiese lei con voce rotta da un sospiro: – Vlad.-.

Poi il silenzio, in cui Ophelia si lasciò esplorare nella sua nudità.

– Cosa faremo adesso?- lei chiese, mentre lui le baciava le mani.

– Staremo insieme nel bene e nel male! – rispose lui guardandola negli occhi lucidi.

(2012)

 

1. VLAD

 

Vlad Ivanov, braccia forti, dietro la nuca, le dita virili tra i capelli, guardava il volto di Ophelia che si rifletteva nello specchio,

la leggera trama rosso vermiglio dei suoi capelli, che attraverso le generazioni aveva ricevuto come lasciato ereditario, lo lasciavano in una contemplazione religiosa.

Insieme al castello di cristallo, riservato al suo dolore, Ophelia era una Dea dello stesso materiale, al momento occupava quella costruzione insieme a lui; lei una donna dalle fattezze perfette e dal misterioso passato, lo guardava attraverso lo specchio con occhi pieni d’amore.

Ora lui era lì da ormai dieci giorni, passati tra cibo e sesso,

lei lo aveva catturato, irretito, condannato al sentimento a cui lui non avrebbe mai più creduto se non fosse stato il fato a farli incontrare.

I sentimenti, gli avevano tolto più che dato, ma sentiva qualcosa di diverso entrare in possesso del suo cuore adesso, come un’incurabile possessione.

Ophelia dalla pelle di luna, era piena, devota, segreta, attraente.

Lui sentì un fuoco divampare al suo intimo, le mani cercarono in vano di nascondere l’eccitazione: – cosa mi hai fatto?- disse sarcasticamente compiaciuto e lei con voce roca: – quello che tu hai fatto a me! – e si misero entrambi a ridere.

Insieme la loro storia d’amore oscuro, avrebbe rigenerato la luce del tempo, segregati tra quelle mura a cui nessuno era permesso accedere, come più volte aveva ribadito la donna alla domanda: – quale è il motivo del tuo isolamento dalla società là fuori?- lei con tono sempre pacato rispondeva: – nessuno può capire quanto il dolore dell’abbandono possa renderti invisibile!- lui a quel punto non infieriva e taceva in contemplazione, di quegli occhi scuri persi nel vuoto, come ella s’imponeva da decenni.

Tra le rose nere, lei era splendida, fluttuava in abiti rosso corallo, lui si sentiva la preda di Ophelia a cui aveva rivelato soltanto come il ciondolo a forma di cuore fosse caduto e la storia che racchiudeva, del significato che dava a quel sangue che custodiva; la donna non domandò nulla, non indagava, si limitava a rispettarlo senza un vero motivo. Allora lui espresse il desiderio di restarle accanto e lei acconsentì, la sua unica occupazione nel castello era quella di amarla, possederla, prendersi cura sia di lei che di se, ma senza conferire, parlare ad altri della loro storia; lui spesso andava a fare provviste in paese e la tentazione della condivisione era fortissima soprattutto quando gli ponevano la domanda, del come e del perché fosse capitato da quelle parti.

Quel giorno gli fu consegnata una lettera a lui indirizzata, ma non seppe mai chi fosse il mittente, perché quella lettera le fu messa dentro la borsa a sua insaputa.

Il castello era una dimora circondata da un fossato la cui acqua stagna era di un color grigio e impenetrabile, come le mura e le finestre, aveva una corte enorme in cui statue senza testa erano i guardiani, il roseto era l’unica cosa impeccabile, cespugli qua e là di fiori selvatici di un rosso cupo facevano capolino e davano una nota se pur dolente, molto affascinante a tutto, compreso il gazebo in ferro bianco scrostato in cui Ophelia insieme a Vlad conversavano, bevevano tè, mangiavano biscotti casalinghi e consumavano gran parte del loro tempo a guardarsi senza proferir parola.

Ogni tanto il silenzio catartico veniva interrotto da un brusio, un sbatter d’ali improvviso di qualche insetto o uccello che pentrava nella corte.

Era un giorno di primavera, l’aria tiepida permetteva a Vlad di stare in abiti leggeri, mentre Ophelia indossava lunghi abiti rosso porpora: – chi sei? – lei lo guardava con l’occhio vacuo, poi dalle labbra scarlatte usciva la risposta attesa: – sono una donna dimenticata! -.

La notte giunse lentamente, mentre i corpi esausti sprofondarono in un sonno disfatto.

Vlad aprì di scatto gli occhi e gli venne in mette della lettera che stava nella sua borsa, la prese e nel silenzioso studiolo che affiancava la camera da letto l’aprì e cominciò a leggere.

Poche righe appena e lui si sforzava da ore, a occhi chiusi, di immaginare le sue dita sicure mentre le tracciavano sulla carta, non riusciva a dimenticare lo sguardo singolare di Ophelia.

 

(continua)

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