Cinque euro di Emanuela Arlotta

Cosa ci fa quel sole lì, tra le nuvole, cosa ride quell’iridescente raggio che mi aggredisce le pupille? Crede di essere simpatico quell’emblema di serenità che si abbatte come un pugnale antico sul mio dolore, sul mio nulla che non vuole saperne di essere illuminato?

Ma in fondo cosa importa, sono qui per morire e solo questo deve essere il mio pensiero. Niente deve sottrarmi all’idea di portare a termine almeno una cosa nella vita.

Allora iniziamo dalla lettera. A chi spedirla? Ci penso da giorni, chi potrebbe capire realmente cosa sto provando, con quale coraggio ho deciso di affrontare il vuoto prima dell’impatto. Mia madre forse?  No, certo che no. Mia madre crede che tutto possa risolversi parlando, crede che il lavoro sia sopportazione, crede che l’essere umano sia nato per soffrire. E lei si che ha sopportato per anni che a me sembrano millenni, a pensarci. Quanto sono larghe quelle sue spalle e quanto piccole sono le mie che ho saputo portare unicamente in questo rivolo di perdizione senza dargli una speranza. Ecco, se penso a lei, prendo il mio bagaglio di disperazione e me ne torno a casa a piangermi addosso e magari dopo un’ora la vedo affacciarsi sulla soglia della porta pronta a perdonarmi e ad accarezzarmi i capelli come quando ero piccolo.  

Mio padre no, impossibile, mi aspetta lì nel cielo a braccia aperte , con il sigaro in bocca, con la puzza di alcol che invade anche il purgatorio. Mi aspetta per dirmi : <<Vedi, te l’avevo detto che non valevi niente. Tu non mi ascoltavi. Tuo padre ha sempre ragione>>. Mi aspetta per riempirmi le orecchie con l’eco di quella risata rauca e catarrosa che non salva nemmeno se stesso dalla rabbia e dalla voglia di zittirla per sempre.

Rimane lei, solo lei, in questo angolo di stagnante attesa, in questa palude catramosa di plebe ondeggiante che riempie strade disseminate di egoismo, di superficiale ripugnanza.

La vidi un giorno nel quale decisi di spendere ben 5 euro per un cappuccino. Ero in centro e quel bar riluceva sulla piazza come un moderno monumento. Anche i cinesi in gita entravano con il sorriso e uscivano contenti. Per una volta volli provare anche io quell’ebbrezza pur sapendo di essere nell’incertezza economica. 5 euro sembrano una banalità, ma in un fast food, con quella cifra, ci si mangia un pasto di cibo spazzatura, perfetto per far smettere di urlare lo stomaco con i suoi crampi! Presi coraggio e varcai la soglia del Paradiso, cosciente del fatto che mai più lo avrei rivisto. Pensavo di potermi fregiare della fortuna di poter sedere in uno dei bar più in voga della città, di poter invocare il cameriere di turno e di avere tutte le sue movenze da ‘servitore di classe’ al mio servizio. Ma qualcosa andò storto. Quando varcai quella soglia il contorno d’improvviso sbiadì, non vidi più nulla di netto, non misi più a fuoco le cornici specchiate di quel luogo lussuoso. Vidi solo lei. Mi apparve come d’incanto, con quel suo sguardo malinconico e quell’aria pulita, quasi fanciullesca che sgorgava da quelle labbra carnose e naturali che sembrava regalassero aliti impreziositi d’oro.

Rimasi a guardarla rapito, come in preda ad una tempesta in pieno mare aperto. Lei ricambiava i miei sguardi, potrei giurarlo, ma forse non poteva parlarmi, doveva rispettare regole rigide lì dentro. Forse nemmeno in Paradiso esiste davvero la libertà. Il cameriere non si avvicinò a me con fare servile, ma anzi mi spintonò via pensando, probabilmente, che volessi importunare quell’angelo di dolcezza. Ma io non volevo. E’ che non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Era forse un delitto? E come facevano, lì dentro, a non accorgersi di tanta bellezza? Mi ricordo che la ragazza disse qualcosa al capo, chissà, forse aveva tentato di proteggermi, o forse era soltanto una mia bella fantasia. Ma che importava, in fondo? Meglio una bella bugia che una triste verità. In fondo con quella bugia e quel ricordo ero riuscito a campare senza mangiare per un anno intero. Quella visione mi aveva cullato tante notti, aveva calmato i miei crampi, mi aveva sottratto alla mia crudeltà, mi aveva impedito di fare ciò che voglio fare oggi.

Qualcosa è cambiato, in me, si. Da qualche settimana nemmeno quell’angelo riesce più a proteggermi. La disperazione sta rivestendomi da capo a piedi con i suoi abiti migliori. La consapevolezza di non avere più un lavoro, di non essere più un uomo ‘degno’ di questo sistema mi sta uccidendo. Ero un manager rispettato e anche temuto, in quell’altra vita. Ero un uomo perfettamente integrato nella società. Ma basta non avere più un conto in banca per vedere disgregato tutto il castello di sabbia costruito con fatica. Quelle notti di riunioni…. quante notti buttate a pensarci bene. Avrei potuto usarne una, solo una, per mettere piede in quel bar e incontrare quell’angelo senza essere buttato fuori come un delinquente qualsiasi. Si perché in giacca e cravatta nessuno avrebbe osato toccarmi, nemmeno se fossi rimasto incantato a guardare ossessivamente quelle labbra di burro. Ma mi sarei davvero accorto di tutta quella bellezza, in quel momento? Forse sarei rimasto indifferente come il cameriere, come il capo. Forse non avrei saputo cogliere il valore di quell’essere speciale. Quando si è liberi non servono parole per capire, per sapere. Ed io ero libero da quando ero disoccupato. Libero ma inesistente per quella città senza pietà.

Ma basta pensare, i pensieri aiutano solo a cambiare idea. Ora devo agire. Scriverò a lei le mie ultime parole, ormai è deciso. Sono sicuro che possa capirmi. Anche lei è intrappolata in quella gabbia d’oro, gliel’ho letto negli occhi, in quella malinconia che gridava forte e mi parlava una lingua che capivo benissimo senza bisogno di parole.

“Caro angelo…..” Sento lo stridere di freni sull’asfalto. Un’auto sta sbandando proprio sul ponte su cui sono in attesa di gettarmi. Inizia un testacoda infinito, rimango senza fiato, con la matita in mano, bloccata in quell’istante eterno che mi risucchia l’anima senza riuscire a sputarla più via. Un cucciolo di cane è in mezzo alla strada. L’auto continua a girare… altro stridere di freni. Sembra una danza pilotata, tutte le auto seguono un percorso circolare, come in un ballo. Non c’è alcun controllo sulla vita, né sulla morte, non c’è controllo sul disegno divino. Quel cucciolo ignaro continua a leccarsi la coda, io continuo a non respirare.

Poi tutto tace. Nessuno scontro, nessuno ferito. La danza è ferma in attesa di un applauso. Il cane si alza senza degnare di uno sguardo quella scena, come un critico impietoso lascia quel teatro con indifferenza e qualche sbadiglio. La mia matita cade nel vuoto, la seguo con lo sguardo, sbatte sulle pareti di quel ponte come un corpo morto, d’istinto cerco di afferrarla sporgendomi troppo e mi spavento, mi tiro indietro. 

Cosa succede? Ho aspettato troppo, ho pensato troppo. Sono stato percosso di nuovo dalla vita, dall’emozione, che mi ha trascinato via dall’idea di morte. Questa vita non si arrende, mi ripesca dalla fine e mi getta nel centro della mischia, al centro esatto della scena. Tutti scendono dall’auto, inveiscono contro quel randagio, ringraziano il cielo di non aver urtato nulla con l’auto. Forse per qualche giorno torneranno a casa con la consapevolezza del senso della vita, della sua precarietà. Giusto il tempo di ritornare alla quotidianità e perdere di nuovo quel ricordo nel tritatutto dell’abitudine. Ma io no, non dimenticherò, perché abitudini non ne ho più. E nemmeno quotidianità. Magari tornerò in quel bar per rivedere ancora una volta un angelo, per quel cornetto a peso d’oro che pagherò con un mese di elemosina. Ma ne sarà valsa la pena, 5 euro per un anno di felicità…

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