Al mio colle – seconda parte

 

 

 

CAPITOLO V

 

Gli anni che seguirono, non furono malvagi anche perché ritornato dagli U.S.A uno zio, visto quanto fosse difficoltoso spostarsi all’epoca nelle nostre zone, unici mezzi erano vecchie biciclette; mi volle regalare una moto.

I proprietari di moto all’epoca erano in pochi, da contarsi sulle dita di una mano o poco più, la cosa mi fece felice e per la prima volta nella vita mi sentii superiore a tanti altri coetanei.

Tanti di loro disertata la scuola dopo le elementari trovavano svago frequentando la sera le cosidette tresche, no che festicciole da ballo, ravvivate dal suono dell’organetto, solo in sporadici casi era sostituito dalla fisarmonica. Feste che si svolgevano per lo più in tarda serata nel periodo estivo, dopo la sfogliatura delle pannocchie di granturco. Accanto ai cumoli di mais appena ripuliti dai loro cartocci (tale materiale serviva per riempire i pagliericci su cui dormiree sognare magari un giorno migliore) con tanta stanchezza e polvere addosso su uno spiazzo di terreno rimasto libero si dava inizio alle danze; partecipanti giovani e meno ma tutti pronti a cimentarsi in un saltarello, cosa da me sempre detestata, evitando cosi inutili sudate. L’assiduo frequentatore tutto affrontava pur di ritrovarsi vicino ad una ragazza, inevitabilmente sotto gli sguardi di tutti, pronti alle più disparate critiche. Col pretesto del cosidetto ballo si avvicinava la ragazza, sia pure impolverata e un po’ sudaticcia, questa era la speranza di avvicinare l’amata a giusta distanza per sussurrargli una dolce parolina d’amore. Non sempre si trovavano le ragazze a sufficienza, poiché il numero dei ragazzi radunatosi erano superiore, provenienti da varie contrade, alle volte anche rivali tra di loro, cosi per evitare di rimanere inerti spettatori, bisognava accontentarsi di mature signore, che ben volentieri si concedevano a zampettare una polca o la più comune ballarella. A volte poi inaspettatamente suddette riunioni finivano in rissa, causate da ammicamenti, forse troppo spinti, rivolte alle  ragazze del luogo, da parte di giovani fuori zona o magari accese con proposito da un marito geloso, che poco gradiva vedere la moglie tra le braccia di un focoso giovanotto, cosi seguivano veri e propri pestaggi altrochè l’agoniato divertimento.

Questo era il massimo del divertimento permesso alla gioventù dell’epoca, non c’erano né discoteche né piano bar o altro, dove oggi i nostri giovani si divertono e si sballano con le più disparate droghe. Vorrei urlare a tutti la mia disapprovazione, e spingerli all’amore alla vita, alla ricerca di una donna alla quale tanto si può dare e altrettanto ricevere.

La mia prima moto, una centoventicinque M.V. mi diede la possibilità di conoscere l’intero territorio, mi permise di uscire dal ristretto giro di amici, ed esplorare paesi limitrofi, allargando sempre più il raggio d’azione, raggiungendo anche Roma e Napoli.

Si aprirono cosi nuovi orizonti, ebbi modo di conoscere nuove ragazze, alle volte anche in contemporanea. Dovevo il più possibile conoscere quel mondo fantastico che era la donna, non lo nego è stato il mio forte, il pianeta donna si rivelò il punto strateggico di partenza e arrivo della mia vita.

Nutrivo gran piacere essere attorniato da ragazze, saperle disponibili ad amarmi per poco o per la vita, all’epoca non faceva differenza, poiché in entrambi i casi era da me voluto di breve durata. Tutto nasceva al fine di arrichire il mio bagaglio di conoscenza, e approfondire ogni storia, per trarne da ognuna di esse un tassello per crearne un quadro completo di come in seguito sarebbe dovuta essere la futura compagna della mia vita. Quelle storie non si contano per quante furono, né le ricordo tutte e meno ancora sarebbe il caso di elencarle.

Nel frattempo fui convocato per la visita medica di leva, erano passati quasi ventun anni della mia vita, si avvicinava la primavera e la partenza alle armi, e ripensai a tutta l’esperienza maturata in quegl’anni per affrontare la nuova avventura.

Bisognava pensare a costruire qualcosa di più serio e duraturo anche per avere qualcuno cui indirizzare la posta durante il servizio militare. Acqua sotto i ponti ne era passata dalla fine delle medie, gli ormai adulti compagni avevano intrapreso svariate strade, all’epoca per trovare lavoro in tanti espatriavano in Francia o in Germania, io che sempre ho creduto in ques’Italia, non mi sono mai mosso dandomi coraggio al pensiero che un giorno avrei trovato un posto di lavoro e vivere in patria evitando l’espatrio in terre straniere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO VI

 

Era un mattino di maggio quando montai in sella alla mia moto e presi a percorrere la strada per la stazione; sapevo di vedere lì vicino, in una cascina a pian terreno, una ragazza di buona famiglia, che dato l’ottima stagione certamente a quell’ora l’avrei senz’altro trovata a godere di quell’aria primaverile in compagnia dei suoi alunni.

Arrivato, in prossimità scorsi immediatamente quel folto stuolo di bimbi festanti intenti a giocare in un praticello attiguo alla scuola, in compagnia della giovane maestrina e di un’altra signora, intente a sorvegliare la scolaresca. Esaminata attentamente la situazione ormai a me favorevole, oltrepassai salutando in lontananza, per ritrovarmi di lì a poco con un valido motivo per giustificare la mia presenza in loco.

Qualche centinaio di metri più in là, vidi una rimessa di fusti, e con il pretesto d’acquistarne uno, bloccai la moto, l’affare non si concluse, ma poco importò, bisognava fare in fretta, ritornare indietro, fermarsi al praticello, conquistare la simpatia di quei piccoli e soprattutto della sconosciuta signora, mentre per l’eperienza acquisita in campo non mi preoccupava affatto abbordare la giovane maestrina. Tanti anni prima, frequentando le medie c’eravamo spesso consolati a vicenda, di cosa stesse succedendo nelle nostre famiglie; mentre s’infrangeva il sogno, di essere stati sino  allora figli unici; in quel tempo le nostre mamme aspettavano la nascita di un altro figlio, e noi ci preparavamo al nuovo assetto familiare. Quell’evento sinistro e incomprensibile per la tenera età e mal digerito ci accomunò sia pure per le strane coincidenze, tanto da farci ritrovare spesso insieme a parlarne e vicendevolmente cercare di superare le nostre ansie e preoccupazioni.

Mi fermai, rimanendo cavalcioni sulla moto, subito dopo i rituali saluti, parlammo a lungo del nostro lontano passato, poi……fingendo di chiederle un’ambasciata per un’anonima ragazza sua amica, tirammo avanti per l’intera mattinata, tanto da dover affidare la totale sorveglianza di quei ragazzi alla collaboratrice.

La cosa li intricava sempre più e nella speranza di capire chi fosse la mia ipotetica fiamma, m’invitò ad aspettare la fine delle lezioni, per parlarne con più tranquillita in stazione mentre aspettava il treno che la riconduceva al nostro paese Dopo, il secondo incontro il caso le sembrò ancora più confuso, con il mio ritmo incalzante e parafrastico tanto da chiedermi di rincontrarci nei prossimi giorni, per venire a capo di quella matassa apparsale tanto intricata; assecondai la sua volontà con piacere rendendomi appunto disponibile a rincontrarla e metterle in chiaro ogni cosa.

Il tempo rimasto fermo con le spalle rivolte al sole purtroppo a sera mi procurò un’alta febbre che mi tenne compagnia per diversi giorni, impedendomi di uscire e tenere, fede a quanto promesso, tenendo cosi in ansia la maestrina. Dopo la convalescenza, recuperate le energie, riordinai le idee e mi rituffai nel progetto, che non tardò a concretizzarzi, convertendo quella vecchia fiammella rimasta accesa per tanti anni, in un possente fuoco di passioni che entrambi ci travolse superando ogni ostacolo; che non si fecero attendere ad arrivare appena la cosa divenne di dominio pubblico, istigando soprattutto il suo papà già non favorevole.

Il mio orgoglio di giovane forte e perseverante non mi fece retrocedere di un passo. Superato l’apparente ostacolo del papà, durante l’estate del millenovecentosessanta si pianificò, rendendosi concreto con lo scambio degli anelli il fidanzamento, ufficializzando gli incontri con le rispettive famiglie, senza contrarietà alcuna.

Tutto filò liscio durante la stagione estiva, fino a meta novembre quando partii militare, la separazione fisica non fu certo gradevole benchè ci fossero gia buone fondamenta e forgiati sentimenti.

Arruolato in aereonautica, i primi due mesi li trascorsi a Viterbo nella V.A.M. (vigilanza aereonautica militare) unica scuola sul territorio italiano, scambiandoci lettere giornaliere, poiché all’epoca erano il solo mezzo di cominicazione, poco era diffuso il telefono. Furono i mesi più duri, sia per la formazione nell’Arma sia per la lontananza; si marciava per giornate intere consolandoci nell’illusione di appartenere a un corpo specializzato per fare guardie in posti prestiggiosi, picchetti d’onore e altro, ma a fine giorno la stanchezza si faceva sentire, alleviandosi solo quando si riceveva posta; a sera seduto sulla branda a far risposta, scrivere, scrivere tanto che mai bastava il foglio e poi infine, per l’invio di un’ultima carezza o un bacio si sfruttava persino l’interno della busta prima della chiusura.

Durante la permanenza a Viterbo vennero a trovarmi mamma, la futura suocera e l’immancabile Annarella, la visita fu da me molto gradita. Fu quello il periodo più lungo da separati, durò venti giorni e mai più si è ripetuto nella vita, poiché alla fine del C.A.R. mi trasferirono a Bagni di Tivoli dove trascorsi altri due mesi, ma con buone possibilità di ritornare spessissimo a casa tra l’invidia di tanti commilitoni.

E’da tener presente che in quegli anni il militare si svolgeva lontano da casa col pretesto di far conoscere l’Italia al malcapitato. Nell’arco dei due mesi ci portarono per venti giorni all’aereoporto di Pratica di Mare, per meglio addestrarci sulle piste di decollo, ormai sgombre dalle frecce tricolori, trasferitosi a Grosseto.

In quel periodo tata (papà) casualmente si trovava a Capocotta, località nei pressi dell’aereoporto, come guardiano presso un complesso di villette in costruzione, tanto da poterlo raggiungere a piedi e cenare spesso in sua compagnia.

Rientrato a Bagni di Tivoli dopo quella breve esperienza in zona marina, inoltrai domanda per tre concorsi nelle ferrovie dello stato, la quale ebbero tutti positivo riscontro. Volarono in fretta quesi due mesi con un epilogo stupendo, quando seppi della definitiva destinazione “l’aereoporto di Frosinone”. Ero cosi vicino a casa che non sembrava stessi svolgendo il servizio militare, arrivammo in due dell’XI Corso V.A.M., fra tanti picchetti svolti ne ricordo uno all’Altare della Patria, in occasione della festa delle forze armate, con tato di pubblico che applaudiva al passaggio dei vari reparti partecipanti alla parata.

Per noi V.A.M. di Frosinone la naia fù piacevole, disponevamo di un tesserino che ci permetteva di uscire due giorni su tre, in altre parole ventiquattrore di servizio e quarantotto di riposo, da trascorrere a casa, recuperando persino i pasti non consumati, mentre nei giorni di servizio la nostra mensa era la stessa dei sottufficiali.

Tutto andò nel miglior dei modi sin quando mancavano tre mesi alla fine; e il vice comandante ebbe la splendida idea di trasferirmi a Perdasdefocu in Sardegna. Non riuscivo a rassegnarmi, era stato troppo bello, fare giornalmente Frosinone Castro, per incontrarmi con Annarella e portando conforto a nonna Assunta, che in quel periodo era in casa da sola. Improvvisamente tutto svaniva mi sentii crollare il mondo addosso, eppure in quell’atmosfera cupa trovai insieme al futuro suocero uno spiraglio, andando a chiedere aiuto direttamente alla segretaria particolare di un noto personaggio politico, la quale ci rassicurò che quel trasferimento avrebbe fatto in modo di annullarlo. Incassammo contenti la promessa verbale della signora e rientrammo a casa, purtroppo le ore di permesso concessami per recuperare il corredo e riportare la moto a casa trascorsero veloci, tanto che l’indomani non avendo avuto altre notizie, non mi rimaneva che partire per la Sardegna.

Iniziò cosi l’avventura e recatomi a Civitavecchia, m’imbarcai a sera per Cagliari; durante l’attesa sperai ansiosamente che tra i tanti annunci radio qualcuno avesse pronunciato il mio nome, macchè tutto fù vano, come pure fù all’arrivo nel porto sardo, tanti annunci, ma il mio nome nessuno lo pronunciò.

Con il cuore infranto giunsi in quella città di mare, assomigliante a prima vista a tante altre, finchè allontanandomi dal porto potei costatare che Cagliari aveva in comune alle citta continentali il solo porto. Trovai alle’epoca una Sardegna povera da far paura, imparagonabile persino alla povera Ciociaria, abitata da un popolo ospitale. Raggiunsi cosi dopo una notte insonne trascorsa in mare e un giorno tra l’attesa di un pulman e il viaggio di novanta chilometri circa, Perdasdefocu mia ultima destinazione; quel tragitto mi permise di rendermi conto quanta desolazione regnasse nell’entroterra, eccezion fatta per la costa e la pianura del campidano; pochi i paesi incontrati lungo quella strada bianca e sfossata, vecchie case in calce e pietra, scarnite nel tempo dall’intemperie, arroccate sulle cime di colline e montagne dimore di pastori, con scarse mandrie di greggi, l’unica risorsa per quella povera gente.

Raggiunsi quelle casermette, in una serata con il vento che soffiava a non meno di novanta cento chilometri orari. Costruzioni fatte per lo più in legno e tutte a piano terra, dove ritrovai qualcuno del mio corso, avviliti ed esausti per le pessime condizioni di vita, aggravate dai turni di guardia alla base missilistica poco distante. Il ricordo delle parole sentite a Roma e la speranza che ancora potesse funzionare la raccomandazione promessami, in quel quadro desolante andava sempre più scomparendo, vedevo solo che il resto della naia si sarebbe consumato là in quella terra lontana.

Cosi convinto, scrissi cartoline a tutti gli amici di allora, a casa e ad Annarella, inviando loro uno sconsolato saluto dalla Sardegna.

Al mattino seguente pensai di marcare visita in branda, soprattutto per riposarmi e rivedere con la mente quelle visite giornaliere che mai più si sarebbero potute ripetere, però sul tardi cominciò a farsi sentire la fame e allora giù imprecazioni e bestemmie all’indirizzo di tutti. Queste ombre affollavano la mia mente, quando un aviere tirato a nuovo in lontananza pronunciava il mio nome, al che da buon militare risposi presente, s’avvicinò chiedendomi cosa ci facessi a quell’ora tarda in branda, poi mi invitò a seguirlo in fureria dove qualcuno con urgenza doveva informarmi di qualcosa.

Non potevo crederci, ne resistere alla curiosità, cosi pure contro la sua volontà mi feci anticipare il perché di tanta sollecitudine; dalla sua parziale risposta corsi in ufficio, dove mi attendeva un sottotenente con un plico tra le mani, contenete cinque fonogrammi; da buon V.A.M. feci un gran saluto con tanto di batter di tacchi rimanendo come impietrito sull’attenti fin quando, con accento napoletano l’ufficiale mi disse “comodo, vieni a cà”, avvicinandosi a me, mi prese amichevolmente sotto braccio e guidandomi verso la sua scrivania, mi fece leggere il primo fonogramma, che cosi citava, “Pregasi immediato rientro dell’aviere V.A.M. Mantua Sante”. Allora capii che l’avventura in terra sarda stava per terminare, come puntualmente avvenne, non prima di aver in parte visitato quella terra, ripresi poi la via del rientro dal porto di Olbia.

Fù anche quella un’esperienza, che mi fece conoscere quell’isola, che mai più ebbi occasione e volonta di visitare per il primo impatto negativo che ebbi. Rientrai dopo qualche giorno tra i miei commilitoni di Frosinone, riportando cosi tranquillità a nonna Assunta e Nannarella che incredula del mio ritorno, quasi temette che avessi combinato qualcosa, disertando le stellette, ma dovette ricredersi, terminò cosi in primavera l’avventura militare.

 

 

 

 

 

CAPITOLO VII

 

Quel tempo spensierato mi era sembrato eterno prima del compimento del ventesimo anno di età o comunque prima del servizio militare, con la fine dello stesso, cominciò a trascorrere sempre più veloce apportando in me un cambiamento. Con il fidanzamento la mia vita era cambiata gia, mutava definitivamente tanto d’affrontare molteplici responsabilità; dall’incalzante ricerca di un lavoro con un guadagno adeguato per la realizzazione del matrimonio, che io sino a quel giorno avevo immaginato bello solo nella fantasia pur avendo messo piede nel terzo anno di fidanzamento.

La stessa cosa non avveniva in casa dei suoceri, che gia intravedevano, l’avvicinarsi del fatidico giorno, per quanto mi riguarda, avrei potuto ancora attendere ma non per la futura metà, che spinta dalla mamma fremeva per accorciare i tempi della fatidica data. All’epoca pur essendo fidanzati in casa, non si aveva il permesso di vedersi tutti i giorni, allora bisognava ricorrere a espedienti per incontrarsi spesso all’insaputa dei genitori, cosa a volte previleggiata dal maschietto, ma non certo dai familiari della ragazza corteggiata, scappatoie che alla fine erano scoperte e mal digerite. Anna con i suoi genitori abitava in un vecchio casello ferroviario che in precedenza  era stato adibito a stazione ferroviaria, poi trasferita presso l’attuale stabile.

Vedo già un domani, quando qualche nostalgico di famiglia vorrà leggere questo mio contributo, con ci sarò nè io né quella casa che sempre più fatiscente ancor oggi esiste a fianco del passaggio a livello in disuso. C’era in quell’angusto spazio tra la casa e la ferrovia separata da una staccionata in cemento una traversa di legno, sulla quale ci si sedeva all’ombra nella stagione calda e volentieri a sera nella semioscurità, comodi più di un divano solo perché trovavasi in disparte rispetto dove i genitori solevano sbrigare le loro faccende. In quel luogo ci ponemmo i primi interrogativi per il domani insieme e tra una carezza e l’altra nacquero i primi progetti, si ampliarono, maturarono con grande entusiasmo da superare ogni ostacolo frappostosi in quel periodo se pur transitorio. Eppure, quando una sera, a mia insaputa trovai a sedere su quella traversa Anna, sua madre e amiche comuni che cardavano la lana; la cosa mi disorientò, vedendo in quell’atto un imminente addio alla vita da single, rendendomi conto forse per la prima volta, che a decidere per il domani non ero più solo. Insieme, infatti, qualche giorno dopo decidemmo la data del matrimonio, fù stabilita per il ventinove di giugno dell’anno successivo; i mesi che seguirono furono di intenso lavoro per approntare la casa e tutto ciò che sarebbe servito per l’evento, cose che per lo più dovetti sbrigare da solo e con pochi liquidi a disposizione poiché non disponevo ancora di un lavoro remunerativo. Avevo comunque in quell’arco di tempo superato gli esami dei concorsi fatti precedentemente e superata anche la prova pratica, non rimaneva che aspettare il mio turno di chiamata.

La cosa si fece a lungo attendere, giungendo comunque puntuale come un gran regalo alla vigilia delle nozze, ricevendo un invito accompagnato da un biglietto gratis per raggiungere il mio primo posto di lavoro, divenuto poi anche l’ultimo fino alla pensione dopo circa trent’anni.

Il matrimonio lo celebrammo nella nostra parrocchia, allora pericolante con tanti di puntelli all’interno per sorreggere soffitto e pareti. Alla cerimonia nuziale parteciparono affermati ferrovieri amici di mio suocero; miei parenti vista la numerosa parentela e amici romani. Pur nella scarsità finanziaria dopo la cerimonia partimmo per un breve viaggio di nozze, prima tappa fù Roma, poi risalimmo la penisola in treno sino a Milano,dove prestava servizio un caro amico e vicino di casa, divenuto poi nostro compare, il quale gentilmente si mise a nostra disposizione accompagnandoci con la sua seicento a visitare zone limitrofe, tra cui como e l’omonimo lago, successivamente in treno facemmo una capatina a Venezia, senza pernottarvi, poiché troppo cara.

Bastò comunque quel breve viaggio per farci felici.

La certezza d’avere un posto di lavoro, il ritorno a casa, fece da splendida cornice a quei pochi giorni rimasti senza alcun impegno lavorativo, per rimanere al mattino più a lungo a poltrire.

Le cose belle son sempre passeggere, come puntualmente avvenne il dieci luglio di buon mattino, sentimmo squillare la sveglia e cosi fini il tempo di attardarsi al letto, non rimaneva che aspettare la domenica o le feste comandate per godere di un alba d’amore. Non rimase che partire e ripetere lo stesso rituale per i successivi trent’anni. Alzatacce consolate dal sol fatto di vedersi accompagnato fin sull’uscio da Annarell, che solo dopo aver preparato il caffè e scambiato il rituale bacetto riguadagnava  il calduccio del letto.

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO VIII

 

L’avventura da pendolare cominciata nel lontano millenovecentosessantatre, con i suoi cento chilometri al giorno all’andata e altrettanti al ritorno durò sino al millenovecentonovatadue, quando maturata la pensione, preferii abbandonare quell’ambiente divenuto ostile, e cosi all’età di cinquantaquattro anni iniziai a godermi la stessa.

Erano già troppi i sacrifici affrontati, non tanto per il lavoro, ma bensi la lontananza da casa; ricordo all’inizio viaggiavo con treni a carbone, ritornavo la sera tardi, per sei giorni settimanali, con camice affumicate come se il mio lavoro non fosse il ferroviere ma lo spazzacamino. A distanza di anni qualcosa migliorò; le vaporiere furono sostituite da locomotive diesel, provenienti dal settentrione, dove le stesse erano state rimpiazzate da locomotori elettrici. Gli elettrodiesel avevano un gran motore con circa millecinquecento cavalli, che in asse a una dinamo alimentavano quattro motori elettrici distribbuiti su altrettanti assi con possibilità di traino superiori alle vecchie locomotive a vapore.

Tutto sarebbe andato per il meglio se tali elettrodiesel fossero giunti da noi nuovi, ma erano stracotti guadagnandosi immediatamente l’appellativo di lombardoni per il rumore emesso e tanto fumo di nafta incombusta e olio bruciato; basta pensare che dopo un viaggio di andata e ritorno Roma-Napoli bruciavano duecentocinquanta o trecento litri di olio su un complessivo di coppa di seicento litri. Spesso nei periodi estivi prendevano fuoco, lasciando i passeggeri sotto il sole prima di poter proseguire il viaggio con una locomotiva di riserva.

Ricordo un giorno, quando ripartendo dalla stazione di Colleferrro, il locomotore dava gia segni di stanchezza, a stento dopo tanto rombare riprese la sua marcia lenta, senza riuscire a guadagnare la giusta andatura, proseguiva affannosamente accumulando minuti su minuti di ritardo; ciò poco importava, la speranza primaria era arrivare a destinazione. Giunto tra le stazioni di Ferentino e Frosinone ridusse ulteriolmente l’andatura sino ad arrestarsi definitivamente. I gloriosi macchinisti pensarono bene di chiedere rinforzo alla stazione di Frosinone ormai vicina, i cui dirigenti non esitarono a inviare l’unico mezzo presente in loco, un carrello di manovra, il quale giunse in testa al convoglio, locomotore sempre roboante ma privo di forza nel proseguire. Certo il carrello di soccorso non avrebbe avuto capacità di trainare l’intero treno, insieme potevano almeno raggiungere il vicino scalo, dando possibilità di ristoro a noi poveri disgrazziati; non fù cosi, in due non riuscirono a mettere in movimento l’intera ferraglia, al che tanti volenterosi scesi da quelle fatiscenti carrozze infuocate dal sole demmo il meglio delle nostre forze spingendo forte quell’inerme ammasso che pian piano prese a rullare sui binari.

Giunti alla stazione del Capoluogo ci sentimmo tutti rincuorati, eccetto i conducenti di quel locomotore, che io non oso chiamare macchinisti, i quali si davano un gran da fare per risolvere il caso; che con la loro imperizia avevano causato, facendo surriscaldare i cosidetti ceppi con errate frenate sin dalla tratta Valmontone-Colleferro, dove accortisi dell’eccessiva frenatura del locomotore e nell’intento di allentare il leveraggio, operarono in senso contrario proseguendo il tragitto con le ruote sempre più serrate dai ceppi, sottoponendo la macchina a uno sforzo tanto da arrendersi alla sua corsa.

Questo fatto venne allo scoperto, dopo aver bevuto un bicchiere di birra al bar della stazione con un collega, ci diriggemmo verso il locomotore orami dato per spacciato. L’amico di qualche anno in più di esperienza in ferrovia mi disse, “ma questi più che allentare il leveraggio, lo serrano” ed io di tutta risposta “perché non glielo dici” ed egli rispose che non aveva il coraggio “ vedi sono neri dalla rabbia e fradici di sudore” allora mi feci io promotore dicendo ad alta voce “Ma non ti sembra che questi dadi sono sinistri”, al che i due malcapitati invertirono la posizione della chiave e solo cosi allentarono il leveraggio, quei ceppi arroventati dal continuo attrito si scostarono dai cerchioni e il locomotore con tutto il suo traino potè riprendere il suo cammino:da quanto descritto facilmente si capisce che ai mezzi fatiscenti si aggiungeva l’imperizia dei malcapitati ferrovieri.

In inverno le probbalità d’incendio diminuivano, ma nelle carrozze assomiglianti a quelle del far west si moriva dal freddo, il riscaldamento era insufficiente, e il più delle volte inesistente e con tanti spifferi d’aria che entrava ovunque, costringendoci a bruciare di tutto al centro della carrozza. Carrozzoni con sedili di legno e con tante porte azionate manualmente, alle estremità tante di quelle baracche viaggianti terminavano con predellini aperti, protetti da una ringhiera in ferro, piacevole nei periodi estivi al passeggero occasionale pe godersi il paesaggio.

Con l’avvento degli anni settanta si apriva una nuova era, dopo un decennio di disaggi si arrivò alla trazione elettrica, solo dopo aver abassato il piano delle gallerie. Solo chi come me fece il pendolare a cavallo degli anni settanta novanta sa quanto duri essi siano stati, prima di vedere transitare lungo la valle del sacco un treno degno dello sviluppo tecnologico.

Un breve acceno positivo alla vita di pendolare, tante furono le conoscenze fatte in treno, la maggior parte furono conoscenze femminili. Non trascurerò di aggiungere che ve ne furono delle piccanti,…..ma sempre transitorie, mai affetive ma col solo intento dell’avventura. Dalla mia esperienza da uomo amante della vita e delle donne belle o brutte, poiché ognuna può donare la felicità; la meno appariscente ha una carica superiore e dedizione inaudita, ognuna col suo segreto e il suo fascino rendono  il maschio felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO IX

 

I primi giorni trascorsi da ferroviere, in deposito non furono certo facili, abbituato com’ero alla mia libertà, incontrai senzaltro difficoltà ad assuefarmi a quel mondo nuovo, la convivenza con tanti colleghi più anziani di servizio di me, e abbusando alle volte della mia buona fede e educazione, per scaricare su di me anche il loro lavoro.

Secondo il mio primo diretto superiore, bisognava  acquistare una certa pratica in ogni genere di lavoro; dagli agganci ai treni, alle varie manovre dei tanti posti deviatori dislocati sul vasto piazzale del deposito. C’era da imparare tutto e subito per sostituire quanto prima gli addetti a quei lavori; per mandarli in ferie o magari sostituirli definitivamente da quei posti più scomodi, e transitando a mansioni meno faticose e più remunerate.

Sarà stato il primo impatto e la lontananza, ma l’idea dei turni non mi attirò fin dall’inizio; feci comunque pratica in quattro posti deviatori e come agganciatore alla rimessa, dove si apprestavano gli elettrotreni, per i paperoni di allora, compreso il settebello fiore all’occhiello di quei tempi.

Nella vita ti capitano sempre cose che purtroppo non sempre sono piacevoli svolgere e sono sempre le più ricorrenti, come sistematicamente avvenne nei primi mesi dovendo fare i turni che poco digerivo.

Mi ingraziai il caporaletto che non tardò ad accontentarmi, e cosi smisi di girare le cosidette caciotte degli scambi. Durante quel periodo ne capitarono di tutti i colori, ne citerò solo qualcuno, quando a sera, finito il turno pomeridiano, stanco m’incamminai a piedi verso il dormitorio, lo raggiunsi dopo una ventina di minuti, avevo un gran bisogno di riposare, non avevo proprio voglia di affrontare il viaggio di ritorno, per poi ripartire dopo poche ore, cosi optati per rimanere a Roma. Mi presentai alla direzione del dormitorio, chiesi per un pernottamento, mi risposero che al momento non c’èra niente disponibile, di ripassare dopo qualche ora, allora ne approfittai per girovagare per la città. Tornato al dormitorio, ebbi un’amara sorpresa, i ferrovieri che avrebbero dovuto liberare la stanza, non l’avevano fatto perché avevano soppresso il treno, ed io mi dovetti arrangaire, maledissi i turni e l’idea di non essere rientrato a casa anche se per poco, in quello stato di tristezza e rabbia non mi rimase che cercarmi una pensione, giocandomi in parte la mia paga giornaliera.

Quella fù senz’altro la scintilla che mi spinse a chiudere con quel genere di lavoro cercando ad ogni costo un turno giornaliero che mi avrebbe assicurato se pur a tarda sera il ritorno a casa. Intanto mi ero guadagnato la stima e fiducia dei miei superiori che aggevolarono la mia richiesta, ebbe cosi inizio un nuovo ciclo del mio lavoro che mi accompagnò sino alla pensione.

Lavoravo sei giorni la settimana con riposo domenicale e le feste comandate, arrivò poi la settimana corta, si lavorava sino al venerdi, ed infine (abusivamente) anche le giornate corte con rientro a casa nel primo pomeriggio. Nel millenovecentosettantacinque arrivò per me la promozione a capo squadra, preferii comunque continuare con lo stesso lavoro che tanto mi rendeva libero; fin quando il titolare, mi invogliò a lasciare la squadretta, lavoro che giustamente richiedeva forza fisica, per operare nel mio ruolo di capo squadra, ovvero primo grado dirigenziale e di controllo sui lavori effettuati da uomini dipendenti di una ditta appaltatrice per la pulizia dei piazzali e delle varie rimesse e dei locomotori, lavoro per lo più svolto in mattinata, garantendomi la continuità dell’orario di lavoro.

Terminò cosi il lavoro fisico ed anche il continuo cambiarmi d’abito, poiché il lavoro consisteva solo nel tenere pubbliche relazioni con i dirigenti della ditta e ferrovie, rapportando per iscritto, a fine orario; l’operato e la qualità delle pulizie effettuate dai dipendenti.

La nuova qualifica mi permise di trascorrere gli ultimi quattordici anni lontano  da qualunque sforszo fisico, rientrando a casa presto e riposato per svolgere il mio compito di marito, padre e conduttore di una piccola azienda agricola. Negli ultimi anni trascorsi in  ferrovia ebbi il sentore che tutto stava per cambiare,(in peggio naturalmente) e appena ne ebbi la possibilità feci domanda di pensione, nell’ultimo anno di servizio alternai periodi di malattia a periodi di ferie, pur di non stare in quel posto, ormai diventato ostile per me. Tutto stava cambiando radicalmente e in fretta e per me finalmente era giunta l’ora di tornare denefinitivamente alla mia amata terra.

Franco de Angelis

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